mercoledì 28 marzo 2012

dove va la scuola americana?

Tempi duri per i responsabili delle scuole newyorkesi.
Il dipartimento dell'istruzione dello Stato di New York ha il suo bel da fare per individuare le linee direttive che devono ispirare i libri di testo da adottare nelle scuole. In un contesto sociale ben definito come "melting pot", crogiolo di razze, è assai arduo dettare i criteri per non urtare le delicate suscettibilità di tante culture.
Si sostiene che le giovani generazioni debbano avere elementi formativi non fuorvianti e trovare nei libri di consultazione quotidiana elementi rispettosi delle tante componenti sociali e razziali.
Vengono così banditi termini come "povertà", perché potrebbe mortificare l'alunno il cui padre abbia perso il lavoro; "divorzio" che rievoca la piaga delle famiglie divise; "schiavitù" perché ricorda a molti dei neri americani la triste condizione dei loro antenati. Per non parlare di "sigaretta", oggetto di una fenomenale campagna di ostracismo diretta in particolare verso le classi più disagiate; oppure "halloween" definita come festività pagana e combattuta da molte comunità cristiane.
Mi sembra il massimo dell'ipocrisia e non mi sorprende che venga dalla terra che pretende di imporre le proprie regole di democrazia e di commercio a tutto il resto del mondo.
Una gigantesca campagna da struzzi che nascondono la testa in un buco del terreno per l'incapacità di guardare in faccia le differenze e tentare di gestirle.
Difficile prevedere gli sviluppi di una simile deriva oscurantista che fa i il pari con l'idea di bandire la "Divina Commedia" per i suoi accenti antisemiti ed anti arabi. Se è vero che l'imbecillità non ha limiti conosciuti è pur vero che bisognerebbe mandare al posto giusto tutti questi novelli "catoni" e le loro censure.
Accettate le tappe della storia, fate passare gli echi e le tracce delle culture prevalenti in quei tempi. Forse ci serviranno per imparare a sbagliare di meno. Oppure a sbagliare ancora tanto, ma in un clima di laica accettazione del mondo che ci circonda.

gli eccessi dell'animalismo

Amore per gli animali e odio per l’uomo: un’emergenza

Mi colpì una volta la frase della classica vecchietta di paese: “Una donna o ama gli animali o mette al mondo dei bambini”. Riduttiva come ogni provocazione perentoria, a volerla analizzare contiene qualche indizio.

La riflessione me l’ha suscitata l’interessante articolo proposto da Paolo Monarca sulle ottusità riportate in una pagina Face book di matrice leghista dove molti utenti, commentando la notizia su una giovane rom che avrebbe maltrattato un cane, auspicavano trattamenti nazisti per la colpevole. Per me più che di razzismo è materia di psicanalisi.

L’inattitudine al confronto tra simili si manifesta, in molti casi, tramite una smodata passione verso le bestie. Guardate da chi viene quella frase, a mio avviso detestabile: “Sono meglio le bestie dei cristiani”. Spesso segue a manifestazioni di odio per immigrati e rom, per gay e criminali.

Necessario un debito distinguo tra chi difende con coraggio gli animali, vedendo nell’equilibrio tra specie una ragione di salute del pianeta, e chi di questa battaglia fa un feticcio buono alle proprie frustrazioni. Una cosa è provare piacere ad accarezzare un cucciolo, salvare una tartaruga e ammirare un cavallo che corre in un bosco. Altra è divinizzare gli animali che della propria innocenza non hanno meriti.

Per secoli il rapporto tra persone e bestie si è consumato in una serena convivenza, lontana da morbosità. Giusto che le emergenze ambientali abbiano provocato la nascita di una diffusa coscienza ecologica, meno giusto che questa venga condotta a detrimento di quello, prioritario, nei confronti dell’uomo.

Ho cercato, partendo da una mancata vocazione, di interpretare il mio piacere per espressioni libere di rapporto con gli animali e l’imbarazzo al cospetto di svenevolezze. Amo guardare la composta gioia di un bimbo che parla ad un cane, detesto l’esagerazione di quelli che, come in un bel servizio di Enrico Lucci a “Le iene”, fanno lo shampoo al maiale.

Secondo gli analisti il parossismo, in tal senso, confina con una forma di asocialità. In parole povere, rifugiarsi in chi non ha coscienza è un modo per non affrontare i drammi, o la pochezza, o i limiti della propria. Ci si sente a casa, insomma.

Logico dunque che un tale, micidiale nesso compaia formalizzato in siti - per me da chiudere al pari di quelli di pedopornografia per identica pericolosità “psicologica” – come quello di estremisti di destra, o di frange intolleranti della Lega Nord. Perché non è la deriva razzista che allarma maggiormente: piuttosto quella umana.

Gli animali vanno trattati da tali: con rispetto e senso della distanza. Sono convinto che sia il modo più convincente di amarli. Compiango chi ci si relaziona come a persona, annunciando la personale inadeguatezza alla gara tra uguali.

Giovanni Chianelli

martedì 13 marzo 2012

la rivolta del tempo. Zero è zero

E' un racconto breve di Giovanni Chianelli

Zero è zero.
“Bisogna fare qualcosa, non ne possiamo più”.
Sono tutti riuniti, come da circa cento anni a quella parte.
Più o meno da quando erano diventati vittima di un’illogica ingiustizia.
“Basta, sono anni che ci vediamo e che abbiamo
concluso? Che un altro se n’è andato ed è passato allo schieramento
avversario”.
L’atmosfera è più tesa del solito. Quella perdita, consumatasi
di recente, aveva esasperato il gruppo, già molto provato. Uno può lottare
contro un nemico, contro un esercito, e forse pure contro una coalizione. Se
questi sono evidenti, però: poi magari perde e pazienza. Ma combattere contro
quasi sessanta milioni di persone, che tra l’altro se ne infischiano e non
sanno neanche che li stai sfidando, o che almeno ci vuoi parlare per protestare,
questo no. È troppo.
Il più furioso è Febbraio. Normale, aveva da poco
perso il vicino. Quel reprobo di Marzo c’era riuscito, da solo, fregandosene
della causa comune. Era riuscito in quello che loro da un secolo volevano
ottenere a tutti i costi: la conquista dell’aggettivo. Il loro statuto parlava
chiaro: “Non essendo giusto che solo i mesi di Agosto, Settembre, Ottobre,
Novembre, Dicembre possano essere declinati in attributi, con tutti i vantaggi
in termini di diritti d’autore, popolarità, simpatia che ne derivano,
quest’assemblea si costituisce in Comitato per l’aggettivazione dei mesi
dell’anno”. Il CAMO si riuniva per discutere del problema, tramite proposte al
Ministero della Cultura, alle case editrici di dizionari e all’Accademia della
Crusca; si incontrava tutti gli anni dalla fine dell’ottocento. Da quando,
cioè, la lingua italiana concluse la sua formalizzazione, superando il
dialetto.
Nelle parlate locali, ricordano i mesi in rivolta con nostalgia,
c’era spazio per tutti: “Io avevo lugliolo, che meraviglia. Poi dici che uno
non deve fare il passatista, e che non è vero che si stava meglio quando..
vabbè, lasciamo perdere”, dice il settimo mese dell’anno, accendendo una
sigaretta. Il più disincantato. Andava alle assemblee giusto per abitudine,e
per non essere accusato dagli altri di abbandono della partita. Ma non ci credeva
più, ormai. Spiazzato dalla concorrenza impari del dirimpettaio, Agosto (insieme
a Dicembre il capo della fazione avversa), osserva il resto della brigata con
rassegnazione. Poi si alza, e va a guardare il mare, che gli rimane l’unico
amico.
Sono a casa di Aprile, perciò il mare si vede un
po’lontano. Ma è meglio così, è più struggente. Coerente con l’atmosfera. Da
tempo si incontrano là perché è, come dire, terreno neutrale. Aprile è tra i
più anziani: anticamente, tra i romani, era il secondo. Da sempre mediatore tra
i due gruppi nemici, ufficialmente
legato alla squadra dei vincenti per via di un inossidabile precedente: il
proverbio “Quattro aprilante, giorni quaranta”.“Anche se a me aprilante non mi
piace, preferirei aprilino, come spesso mi coniugavano ai bei tempi”. Si, era
del Magic Team ma, vuoi il motivo un po’precario del detto, vuoi il carattere
mite, per definizione, vuoi ancora l’età,si era sempre sentito parte di
un’unica famiglia. Come un capostipite, era interessato al ritorno alle
origini, a quell’unità inspiegabilmente perduta.
L’argomento del giorno era, come prevedibile, la fuga
di Marzo.
“Quel Giuda”, dice Febbraio.
“Quel fighetto”, rincalza Gennaio, tossendo.
“Quel modaiolo tutto Slow Food e rassegne enogastronomiche,
ma l’avete visto come se la tira? Lo stanno invitando ovunque, sembra che c’è
solo lui”. Maggio ha più di un motivo per odiare Marzo. Su tutti l’invidia: in
predicato di ottenere l’ufficializzazione dell’agognato attributo da tempo, era
stato battuto sul filo di lana dal vecchio amico. La recente diffusione di
prodotti alimentari a tipizzazione mensile, dal formaggio alla frutta, aveva
sdoganato quell’espressione che sta facendo perdere le staffe al CAMO.
“Il primo sale marzolino, il fresco caglio marzolino… bleah”,
mastica ancora amaro Maggio pensando al suo amato aggettivo che ha pure dato i
natali onomastici ad un insetto, e ad una fortunata automobile. A lui niente.
“Ma lo sapete”, interviene Giugno, “che sulla scia dei
recenti successi sta raccattando tutta una tradizione, dalle Idi ai brani di Lucio
Dalla e Battisti, alle poesie di Di Giacomo e ai detti
‘pazzerelli’,quell’effeminato, e vorrebbe nientemeno fondare un movimento, il
Marzismo? Si è montato la testa”.
Giugno è particolarmente depresso, il suo è un caso irrecuperabile.
Ricorda, era il ’73, rinfrancato da un brano di De Andrè, in epoca
movimentista, quando fece le ricerche e il battage mediatico per tentare l’azione
legale. Girò biblioteche, rovistò libroni antichi, catalogando ogni traccia di
quell’astruso “giugnesco” di cui era sfortunato detentore. Ora è triste e
silenzioso, al massimo si lagna col suo vicino Luglio: “Tu almeno hai quella
canzone famosissima, è stata pure in classifica per un’estate. Oddio, se non
capitava a te di stare in classifica d’estate”. Luglio si gira, lo guarda con
tenerezza.
“Non attacchiamo con la solfa delle canzoni, che se è
per questo io dovrei essere il primo a lamentarmi”, ancora Maggio, che in
effetti è stato anche troppo celebrato dalla musica. Come non capirlo? Avrebbe
tutti i motivi per essere il mese più declinato. Dal Maggio Francese a quella
bella di Concato, che lo commuove tanto, per non parlare della canzone
napoletana che ne ha causato un florilegio.
“Basta”, cerca di mettere ordine Aprile.
“Bella forza, tu hai pure il Pesce”, fa ancora il suo rancoroso
compagno primaverile. Un vero chiacchierone, Maggio.
“No, dico basta perché vorrei passare all’ordine del giorno.
Esaminare uno per uno tutti i casi singoli, e poi riempire i moduli perla
petizione”.
“Ma se lo facciamo tutte le volte!”, lo interrompe bruscamente
Febbraio. Sempre più nervoso.
“E dai, proviamoci” fa Gennaio, con voce roca, apparentemente
più possibilista. In realtà coltiva qualche speranza di farcela per via
dell’influenza. Una vecchia storia: data la diffusione di raffreddore e febbre,
nel suo periodo, si augura di guadagnarsi l’aggettivo per via di un’attribuzione
clinica. Lo sogna da tempo: “La gennarina” sarebbe il massimo,ma gli basterebbe
anche una patologia gennaiola, o qualcosa del genere, e il gioco sarebbe fatto.
Certo, ambizione miserella, quella di passare alla storia come il mese dei
malanni. Ma questo passa il convento, si è detto tante volte,e nella sua
condizione basta e avanza.
“Tanto ho capito a cosa ti riferisci, illuso. Guarda
che se proprio qualcuno deve farcela con la febbre quello sono io”, gli urla Febbraio.
E come dargli torto?
“Così non arriverete a niente”. Un gruppo di sei
ragazzi entra nella stanza. Da un po’ di tempo a questa parte, dagli anni ’60, prendono parte
all’assemblea anche loro: sono giovani, inesperti, fanno anche un po’ pena
perché il loro è un problema davvero irrisolvibile. Sono i giorni della
settimana.
“Guardate noi, siamo tutti uniti. Eppure la nostra è un’ingiustizia
simile, e solo una di noi si è salvata”, dice Lunedì. In effetti, loro hanno la
Domenica che impazza in ogni dove, mentre a loro non è toccato nulla. Nemmeno
al Sabato che qualche pretesa potrebbe avanzarla. Anche loro sono in agitazione
da quando fu abrogata la messa in latino e quel modo di dire, domenicale, dalle
sagrestie si diffuse alle gite fuori porta e da lì ovunque.
“Si, lunedile, martedile: ma che begli aggettivi”, li canzona
Maggio. “Che volete un’altra volta qua?”
“Vogliamo aiutarvi nella lotta”, dice proprio Sabato
che, si sa, è il giorno delle manifestazioni.
“Beata gioventù”, pensa Aprile. “Va bene, entrino
anche i giorni ma cominciamo. Prendiamo in esame tutte le pratiche. Allora,
Genny”.
“Io, accantonato il motivo sanitario”, dice
rivolgendosi a Febbraio che già lo fissa con odio, “sto lavorando su due
terreni: le vacanze sciistiche e il freddo. Sono dei temi caldi, se mi passate
l’ossimoro”.
“Passiamo al nostro amico Fefè”, fa Aprile per ammansire
il furibondo secondo mese.
“Io pretendo”, fa Febbraio piccatissimo, “che mi venga
subito riconosciuta l’attribuzione clinica, con presenza nei manuali scientifici
e prontuari medici; e poi ho il Carnevale. Guardate qua, è citatala ‘mascherata
fevruarina’ in un tomo del marchese Arcimboldo de Lattanziis, che ne parla a
proposito delle tradizioni nobiliari francesi del periodo del Re Sole”. In
effetti è un po’ snob, e anche se molti gli hanno suggerito di aggiornarsi, che
i tempi cambiano e per quella via araldica non andrà da nessuna parte, lui
continua con le citazioni erudite. Per dire, ha sigillato la sua pratica con la
ceralacca.
Mentre sta per prendere parola il padrone di casa, si sente
bussare alla porta. Aprile manda ad aprire il Pesce e Quattro, suoi fedeli
servitori. Quella che entra nella stanza sembra una comitiva di reduci da
Lourdes, e che avevano trovato il santuario chiuso: dodici vecchi, alcuni su sedie
a rotelle antidiluviane, altri con stampelle di legno tornito e curiose effigi
sulla superficie, gli ultimi con dei mantelli di pelle consumata chiusi da
gualdrappe.
“E chi sono ‘sti matusa?”, fa Gennaio a Maggio a bassa
voce.
“E che ne so, questa riunione sta diventando una
farsa. Mi sembra un gruppo di consapevolezza di sfigati, un Sert, gli “alcoolisti
anonimi”, dice il mese delle rose, sempre ciarliero e sarcastico.
“Questi onorabili signori li ho invitati io”, dice
Aprile.“Loro sono i secoli dal primo dopo Cristo all’undicesimo. Anche loro
hanno la sfortuna di mancare di aggettivo e volevano darci una mano. Potrebbero
costituire una sponda autorevole, a mio modo di vedere”, continua con l’enfasi dovuta
alla presenza dei vegliardi.
I vecchietti spiegano che, per colpa di una
storiografia recente, dopo l’anno Zero e fino al 1200 i secoli sono sprofondati
nel nulla qualitativo. Si dice duecentesco, secentesco e novecentesco ma mai
centesco (infatti Word lo nota subito) e men che meno millesco, ad esempio, per
il lasso che va da 1001 a 1099. Figurarsi per i secoli del primo medioevo: “Vabbè,
noi siamo disperati: non si capisce perché quei ladri dopo il 1200 si sono
dovuti rubare le nostre qualifiche. Ma siamo noi, no, ad essere senza il mille davanti?
E loro si fanno chiamare tranquillamente duecento, trecento e così via, come se
noi non fossimo mai avvenuti!”, dice stizzito il Duecento dopo Cristo.
“Addirittura io sarei il terzo secolo. Ma così chi diavolo mi riesce a capire?”,
continua.
“Cari amici”, dice sempre Aprile, “stiamo cercando di risolvere
i problemi di tutti. La nostra sarà un’iniziativa di massa, una moderna class
action. Ora procediamo con Maggio”.

Maggio sventola la sua pratica che è sempre la stessa
da anni. Visto che deve rinunciare a maggiolino – ormai il copy ryght era
andato alla Wolkswagen -, anche perché lo sfotterebbero subito a suon di “scarafaggio!”,
sta deviando su maggiaiolo, che è tanto poetico. “Vogliamo ricordare quanti
fiori escono quando lavoro, e quanti piatti, e la sterminata serie di
tradizioni rurali? No, vero? Sarebbe esercizio dell’ovvio”, dice retorico verso
la platea, lancia i fogli al suo collega e si mette a sedere. Un attore
consumato.
“Vai, Giù”, fa Gennaio.
“Io dico: con me inizia l’Estate. E questo, da solo, basterebbe.
Ci vogliamo mettere quella frase, che è ormai un luogo comune, che i bagni che
si fanno sotto la mia giurisdizione sono i migliori? Eh no, perché sono belli
anche quelli che si fanno durante il maledetto Settembre. Lui ha il fantastico
‘mare settembrino’ – mentre Giugno lo pronuncia chiude gli occhi,ironicamente
ispirato - e io non ho un beneamato nulla!”.
“Ok, ora sta a Lello”, tenta di intromettersi
Mercoledì, con parlata adolescenziale.
Luglio lo guarda interrogativo, come a dire ‘ma chi lo
conosce questo marmocchio’, e alza le spalle. Tenta di scuotersi dall’inerzia in
cui era precipitato: “Ora che mi sono un po’ calmato, pensavo a qualcosa dimeno
soggettivo. È tempo sprecato continuare, come facciamo da anni, con la polemica
personale. Stendiamo un documento comune in cui riassumiamo le nostre istanze,
e facciamo un po’ di propaganda. Per me andrebbe anche bene il viral. Potremmo
iniziare a far girare degli spot clandestini in cui si parla della nostra
situazione. Robe tipo ‘un mese con gli attributi’, o ‘fai un omaggio a Maggio’.
Che ne pensate?”. Luglio ha quest’idea collettivista, diciamo che tra i mesi è
il più rivoluzionario, forte di precedenti effettivamente agitati, come un
notissimo 14 di qualche secolo fa.
L’assemblea inizia a scaldarsi. Una confusione di proposte,
urla di rabbia, qualche secolo più antico che accusa malori. Sembra una
riunione di condominio. Che poi la casa di Aprile non è proprio enorme, è uno
dei mesi che ha meno giorni. A tal proposito, il massimo dell’isteria si raggiunge
con l’infelice uscita di Venerdì. “Persino nella filastrocca”, dice quel pettegolo
giorno della bellezza, sobillando l’uditorio, “Trenta giorni ha Novembre, con
April, Giugno e Settembre eccetera quei due vengono citati”
“Non me ne parlare”, strilla Febbraio, “neanche là
vengo nominato. E che cosa sono, impronunciabile? Figurarsi: quando ne ho
ventinove devo pure tollerare che il mio povero figlio, che vedo ogni quattro
anni, venga chiamato bisesto e funesto”.

“Vabbè, quella è una vecchia canzoncina per insegnare
ai bimbi la nostra durata”, cerca di intercedere Giugno, che tra l’altro tiene
il proverbio come una delle poche gratificazioni.
Insomma, non si conclude nulla. Ma proprio quando
Aprile sta per chiudere con l’ennesimo fallimento il coordinamento, il
campanello suona di nuovo.
Quattro e Pesce aprono. Entrano nella stanza tre
strani tizi. Uno è vestito con jeans a zampa d’elefante, un eskimo e una
sciarpa rossa; capelli lunghi, ha in mano il libretto di Mao. Affianco a lui un
signore azzimato, grosse basette, giacca
di fustagno e un pantalone aderente che finisce in stivali alti. Imbraccia una
carabina, una doppietta, un fucile antico insomma. Dietro loro un uomo
altissimo, molto magro, dal volto nobile e sorridente, soffuso di una strana
luce. Indossa una tunica chiara.
“Ci mancavano solo questi tre pazzi”, sussurra
Maggio,“ora siamo proprio alla fiera del reietto. Non so chi sono e non lo
voglio sapere, me ne vado prima che arrivi l’ambulanza”.
“I primi due li conosco”, gli dice Luglio. “Quello con
l’eskimo è il 1968. L’altro, il tipo con la spingarda, è il 1848. Sono anni importantissimi,
sono gli unici della storia che hanno ricevuto l’aggettivazione, sessantottino
e quarantottesco”. Luglio mostra una certa consuetudine con gli anni ribelli.
“Solo il terzo, lo spilungone, non mi riesce di capire chi è”.
Il ’68 si accende una canna e prende parola:
“Cioè,abbiamo fatto irruzione in questo collettivo autoconvocato, cioè, non
perché abbiamo qualcosa contro il metodo partecipativo, anzi, crediamo molto
nella lotta dal basso, ma siamo convinti che questa via, cioè, sia autoreferenziale
e borghese, reazionaria in fin dei conti, cioè”.
Il ’48, focoso, rincalza il collega: “Egregio
consesso, il furore che vi agita, legittimato da comprensibili istanze, non è
animato, a mio avviso, da quella giusta considerazione del traguardo che solo
una ponderata e cogitata prolusione può inverare, e a cotal fine riteniamo che
solo l’illustre parola del nostro conducatore possa, all’uopo, illuminarvi”.
Tutti gli sguardi si dirigono verso l’uomo in tunica.
“Chi sarà?”, si chiedono tutti. “Mah, però sembra uno che conta”, fanno altri.
“Cari amici”, esordisce, ieratico, lo sconosciuto, “io
sono colui da cui tutto inizia e in cui tutto si conclude”.
“E chi è, Berlusconi?”, ghigna Maggio.
“Signor Maggio, abbia la compiacenza di dedicarmi
pochi istanti. E vedrà che le sue domande, come quelle degli altri, avranno una
risposta. Io sono quel momento, quell’anno, quella data a cui ogni epoca è arrivata
ed è cominciata, in cui il tempo precipita e riparte, a cui la storia si rifà,
specchiandosi”.
“Una bella premessa, non c’è che dire. Ma se l’è
preparata o la improvvisa ogni volta? Guardi che noi non abbiamo tempo da
perdere”, lo interrompe ancora Febbraio.
“Ascolti anche lei, ma con un po’ di pazienza. Se non faccio
questa introduzione non capirete mai chi sono. Lo riconosco, è un po’retorica,
ma proprio il tempo di cui lei parla mi ci ha condannato. Non è facile, sapete,
essere l’anno Zero”.
Segue un brusio di “oooh” tra mesi, giorni e secoli.
Zero era davvero l’anno più importante della storia. Nessuno l’aveva mai visto,
ma su di lui circolavano voci strane. Alcuni riferivano che fosse iracondo,
altri generosissimo, altri ancora, infine, che nemmeno esistesse.
“Sono venuto qui insieme ai miei fidi scudieri, 1848 e
1968, per cercare di placarvi. O almeno, per tentare di dare un senso alla vostra
protesta”.
Il buon Aprile gli si avvicina sorridendo e fa gli
onori di casa: “Lei scuserà l’intemperanza dei miei colleghi, ma sono sicuro
che, una volta che si è palesato, avremo tutti la soddisfazione di stare a sentire
le sue nobili parole”.
Zero riprende a parlare: “Aveva ragione, il mio amico Dicembre” - su quella citazione Febbraio e Maggio fanno
ancora smorfie di disappunto, ma si vede che anche loro sono intimoriti
dall’apparizione di Zero – “nel descrivermi la sua indole, tanto magnanima. Ma
veniamo a noi: so che c’è qualcosa che vi turba; e credo anche di sapere cosa
ma vorrei, come dire, un riassunto da lei che si profonde in una benemerita
operazione diplomatica”.
“Illustre ospite”, dice Aprile, “alcuni mesi
dell’anno, i primi sei giorni della settimana e i dodici secoli che seguono la
sua, ehm,venuta, lamentano l’assenza di un aggettivo che li identifichi. A
differenza di quanto avviene, in modo che si ritiene arbitrario, per altri
periodi di tempo”.
Zero sorride, mentre guarda tutto l’uditorio. Fa trascorrere
alcuni attimi, attimi in cui la suspense sale. Tanto, proprio lui di tempo ne
ha quanto vuole. Passa in rassegna speranze e dolori di ognuno. Infine, dopo
che è sicuro che la platea sia tutta concentrata e oramai calma, parla.
“Insomma vi addolora non avere un aggettivo. Ora io
potrei dirvi che ci sono tanti altri problemi, nella nostra dimensione, che al confronto
il vostro è un’inezia. Vi potrei raccontare che ci sono milioni di anni,
miliardi di momenti che non hanno mai avuto non dico l’attributo, ma neanche il
nome, o che alcuni, come il Pleistocene o il Protozoico, vengono utilizzati
solo da pochi scienziati o da qualche spiritoso che se ne approfitta per fare
una battuta, che ne so, sulla vecchiaia. Potrei dirvelo ma non lo farò: sarebbe
come spiegare ad una ricca signora dei Parioli che non è proprio una tragedia
che le si sia forata la gomma del Suv, se a qualche centinaio dimetri un
barbone muore di freddo”.
Tutti si sentirono in colpa. Chi si guardava le
scarpe, chi tossì nervosamente, chi all’improvviso si sentì uno sciocco. Zero
continuò.
“Dicevo che non userò queste argomentazioni: la storia
è una roba troppo complessa e non si può chiedere a chi è costretto, per
sempre, a fondarsi su sé stesso di non guardare che la propria eterna
condizione. E allora vi rivelerò qualcosa di sorprendente. Voi avete, dentro di
voi, la soluzione del vostro dramma”.
Un nuovo coro di meraviglia saluta quell’affermazione.
I mesi più scettici restano in dubbio, volendo saperne di più.
“Che intende dire, signor Zero?”, chiede
Luglio,imbarazzandosi un po’ per quella definizione che sembrava offensiva.
Signor Zero somigliava ad un signor nessuno, in effetti.
“Intendo che voi cercate un aggettivo inutilmente. Perché
è come se il sole cercasse di diventare una stella”.
Questa volta alla sorpresa si unisce un generalizzato senso
di inferiorità. Cosa significano le arcane espressioni di Zero?
Zero sorride ancora, godendosi la teatralità del suo discorso.
In fondo, vuole anche divertirsi un po’ con quei pivelli. Perché non è che ci
fossero tante distrazioni, per uno come lui.
“Insomma, voi protestate, fate ricerche, vi..
sbattete, se mi consentite il gergo giovanilistico, e neanche sapete l’origine
del vostro nome. Lei, ad esempio, signor Giugno, lo sa perché si chiama così?”.
Giugno sprofonda nella vergogna. Non sa che pesci prendere:
se fosse stato Aprile se la sarebbe cavata, in quanto a pesci, ma lui proprio
no. Balbetta una risposta: “Ecco, dovrebbe, ma non ne sono certo, masi,
dovrebbe essere riferito a, beh, al fatto che sarei il mese, forse dico, eh?,
il mese g-giusto. Perché è il primo mese caldo, no?”. Ha lo stesso atteggiamento
dello scolaretto che dice al maestro “a casa la sapevo, prof!”.
“Mi sa che siamo fuori strada”, fa Zero, socchiudendo
gli occhi per compassione. “E lei, Febbraio, che mi dice?”.
L’irritato secondo mese dell’anno si lancia,
presuntuoso:“Mi chiamo così per la febbre. Ne sono arcisicuro”.
“E sta arcisbagliando, carissimo”, replica ancora
Zero,ormai in vena di sfottò.
Luglio alza la mano: “Io ho sentito dire che il mio
nome deriva da un personaggio importante”.
“Fuochino”, dice Zero.
“E che vuol dire?”, dicono tutti in coro.
“Che, miei cari, voi tutti siete già degli aggettivi”.
La rivelazione ha lo stesso effetto di una ola. Tra
chi sviene per la tensione e chi si abbraccia per la gioia, sembra di assistere
ad un gol alla finale dei Mondiali.
“Un momento”, chiede Aprile, che da anziano è quello
meno incline ai facili entusiasmi. “Ci spiega bene?”.
Zero, ottenuto il silenzio, si avvia a concludere:
“Lei, Giugno, è il mese di Giunone. Lei corrisponde al periodo consacrato a
quella divinità, insomma la sua definizione cronologica. Lei è la
rappresentazione qualitativa di un dato insondabile. Così come Febbraio è il
“colore” del dio Februus che si occupava di purificazioni, per cui non è che
sia andato così lontano, ma ha sbagliato la connotazione semantica. Luglio
appartiene a Giulio Cesare, lei sarebbe ‘giuliese’. Pensi che brutto, mi sa che
le è andata bene”.
“E noi?”, chiedono giorni e secoli.
“Dei signori secoli mi meraviglio: data l’età dovreste
saperlo che le cifre sono degli aggettivi numerali cardinali. E per i giorni vale
lo stesso discorso dei mesi, capito, Mister saturnale?”, dice rivolto a Sabato
che lo guardava interrogativo.
I primi sorrisi di giubilo affiorano in casa Aprile.
Resta qualche dubbio sui mesi che il loro aggettivo lo hanno comunque ottenuto.
“Fossi in voi li compatirei”, prosegue Zero. “Stanno falsando
la loro natura tramite una sovrastruttura”, e dicendo questo strizza l’occhio
al ’68. “Sono come delle belle ragazze che si fanno la chirurgia estetica.
Aggettivi di aggettivi, poveri loro. Insomma degli avatar, simulacri di nulla.
Perché in fondo, cari amici, è questo ciò che siamo: un modo per chiamare
l’indicibile”.
E detto questo, si dissolve. Forse è vero, non esiste.
Zero è zero.

lunedì 12 marzo 2012

Primarie: il "tafazzismo" della sinistra italiana

Pubblico un articolo di Giovanni Chianelli su Agoravox
Dopo le primarie "famigerate" di Napoli, il gennaio scorso, avevo preso posizione a favore dell'innocenza dei candidati fino a prova contraria.
Pensavo che destituire lo strumento in partenza, non accettando il verdetto di queste urne fatte in casa, era come delegittimare lo stesso metodo a priori.
I fatti mi hanno dato torto. Ma non pensavo fino a questo punto, dopo l'esito di quelle palermitane.
Su un'unica cosa avevo ragione: ora le primarie sono davvero senza senso. Non facciamole più, servono solo ad irritare i già disgustati elettori. Sempre più potenziali. Incredibile, poi, che avvengano brogli in una stagione in cui il centrosinistra, a partire dal Pd, tenta un rilancio a berlusconismo morto. Il tafazzismo della sinistra italiana non è solo un modo di dire. Riusciranno a riabilitare il Popolo della Libertà e la Lega, ormai ne sono sicuro. Come è possibile che accada tutto ciò? E non una voce si sta levando, dalle segreterie dei partiti, contro questo scandalo. In questa occasione, e proprio in una terra tanto delicata come la Sicilia (così come per Napoli), ci sarebbe voluta un'operazione di trasparenza totale, asfissiante, persino paranoica. Niente, la Procura ha iniziato ad indagare il giorno dopo la vittoria di Ferrandelli. Tra l'altro, non credo che siano le procure a dover intervenire, essendo una votazione non ufficiale, ma gli stessi partiti. Che invece hanno preso ad accapigliarsi sul vincitore, come una qualunque lotta la coltello per una poltrona e non un sereno confronto partecipativo giocato in "famiglia". Basta, dichiaro la morte delle primarie per indegnità di chi le indice. Sono ormai un'ennesima occasione per ribadire quanto la sinistra italiana sia un nulla, un nulla pericoloso e meschino. Un nulla di appetiti da poco e accaparramenti sottobanco. Le primarie si fanno nei paesi civili, qui sarebbe più coerente una scazzottata, e chi resta in piedi si candida.