venerdì 24 febbraio 2012

signora, ce la conti giusta!

L'equipe del premier Monti si sta rivelando giorno dopo giorno. Per quello che è, ovviamente. Una serie di cervelloni, con precedenti professionali di tutto rispetto che stanno .. regalando un periodo del loro prezioso tempo alle cure di governo, tralasciando le ben più lucrose attività individuali. Che si tratti per la quasi totalità di "polli di batteria" è sin troppo evidente. Carriere universitarie folgoranti, con attribuzione di cattedre quando avevano ancora i pantaloni corti e le treccine.. roba da enfants prodige; che ne parliamo a fare noi altri con studi e traguardi normali? Corsie preferenziali che si sono aperte molto opportunamente al passaggio di questo stuolo di talenti. Facendone, nei rispettivi settori, dei big che non hanno conosciuto imbarazzanti e defatiganti gavette. Uno meglio dell'altro. Ma, a conti fatti, non particolarmente intelligenti. Prendiamo la signora Severino, ministro della Giustizia. Può ancora andare presentare una denuncia dei redditi da 7 milioni. Diciamo la verità, a chi non capita? Lasciamo ancora perdere che le sue fonti di reddito professionale siano strettamente legate alle opacissime attività finanziarie dello IOR, il braccio economico del Vaticano, di cui la nostra è avvocato e consulente. Pecunia non olet, direte voi. Che profumi di acqua santa (vera o presunta tale) o di altra più concreta materia, alla fine non cambia. E' sempre grasso che cola. E se una istituzione attenta come nessun'altra agli aspetti concreti della vita si è affidata a lei per cose delicate assai, ci sarà pure una ragione. Deve essere bravissima, per forza di cose. I suoi scritti, le sue memorie processuali, devono risentire di tutta una scienza giuridica forte e consolidata, tali da non essere paragonabili alle normali produzioni legali. Pietre miliari dell'esperienza di settore. Per guadagnare tanto, non può essere che così. Una obiezione, in punta di piedi e senza alzare la voce, che tanto serve a poco, possiamo fargliela. Illustre avvocato e ministro, le chiediamo di aver un minimo di considerazione di tutti quegli altri milioni di soggetti normali che la mattina nel bagno producono materia vile e non - come lei - effluvi e depositi preziosi. Non ci venga a raccontare che con le sue tasse - quattro milioni - si potrebbe aprire un ospedale. Lei sa meglio di noi che le sue tasse non creeranno posti di lavoro o luoghi di cura, bensì serviranno a pagare altre parcelle per professionisti come lei, in quel pozzo senza fondo e senza controllo che sono gli incarichi pubblici, gli arbitrati, le consulenze. E poi, siamo preoccupati per la sua memoria: prima di esternare in pubblico, faccia un rapido riepilogo dei suoi beni, altrimenti rischia di dimenticare, come ha fatto, di denunciare una villa da dieci milioni di euro. Ha tutta la nostra comprensione, sia ben chiaro. A me capita persino di non ricordare dove ho lasciato l'ombrello, dimenticanza assai più grave. Specie se piove!

mercoledì 22 febbraio 2012

Siamo o non siamo i campioni?

Un articolo di una penna che non mi dispiace
I campioni sono io. In fondo l’idea migliore la ebbe un tale, la sera del 15 maggio 2011. La sera, ovvero, della prima qualificazione del Napoli alla Champions League. La prima, certo: non valeva molto il ricordo appannato delle sporadiche apparizioni nella vecchia Coppa Campioni, peraltro torneo ben diverso dal suo successore, che erano state fugaci, la prima, e dal finale grottesco, la seconda, con la squadra condizionata dagli umori del suo Reuccio ribelle tra le nevi di Mosca.Quel tale, dicevo, fece l’unica cosa sensata possibile: girare la città in auto, comparire davanti ai crocchi di persone in festa, o semplicemente in uscita davanti ai locali, accendere la radio e mandare a tutto volume la tanto sospirata sigla della Champions League. Quella dal motivo solenne e classicheggiante, di cui la maggior parte delle persone riesce a malapena a distinguere le parole “the champions”, perdendosi nell’indecifrabilità del canto lirico e nel crescendo che attraversa il brano, davvero molto suggestivo. Inutile dire che l’irruzione del tale era salutata, ovunque, da applausi, cori, risate complici, complimenti per la trovata semplice e geniale.Per anni avevamo sentito, noi del Napoli, la marcetta trillare solo per le altre: Juve, Inter, Milan, ma anche Fiorentina, Roma, Lazio, Parma. Forse anche per Chievo e Udinese, addirittura. I più la odiavano perché la associavano ad una serie di fatti infausti: l’impossibilità per gli azzurri di arrivare così in alto tanto da meritarsi la competizione dei campioni; altri snobbavano il cambio d’epoca, appunto: il passaggio dall’antico torneo, che metteva in gioco solo le vincitrici dei campionati, a questo nuovo, moderno, lunghissimo, a cui prendono parte anche quattro squadre per nazione, per rendere ancora più spettacolare e spendibile in termini commerciali il gioco del calcio, per la gioia delle emittenti televisive e dei loro sponsor; altri ancora, i più nostalgici, vi vedevano il simbolo di uno sport che stava cambiando appena era stato abbandonato dal suo interprete principale. Lui, si, il reuccio ribelle di cui sopra. Insomma, i napoletani con questa sigla proprio non sapevano come rapportarsi. Era la musica di testa degli show di Zidane e Ronaldo, di quegli inglesoni guidati da ineccepibili baronetti alla Wenger o Ferguson, era il sottofondo delle vittorie, bagnate da coriandoli pendant, dei Kakà e dei Messi. Una crestomazia calcistica che noi, dai campetti di Licata e Frosinone, potevamo guardare solo da spettatori biliosi. Roba da ricchi, si pensava, roba televisiva, si aggiungeva, con l’invidia malcelata del rancoroso “ai tempi Suoi c’erano solo le prime in classifica e Bruno Pizzul che salutava i gentili telespettatori”. Più meno il contegno della proverbiale volpe a cospetto del grappolo d’uva irraggiungibile. Poi il Napoli ha preso a risalire. Il ritorno in A, le due apparizioni in Europa League, con risvolti altalenanti; ma la frequenza nell’alta classifica si faceva, anno dopo anno, sempre più significativa. E poi la stagione 2010/2011. Qualcuno, vedendo la suqadra macinare punti e consolidarsi in vetta, iniziò a sussurrarlo: “Ti immagini noi, con quella sigla..?”. “Zitto”, gli intimavano gli altri “che porta male. E poi a noi di questa sigla non ce n’è mai fregato nulla”. Neanche si capivano le parole. Qualche altro prese a fare le prove: “The champions, the champions, is free”. Is free? Ma che è? Verrebbe: “I campioni, è libero”, quasi più un invito alla toilette che una marcia trionfale. Perciò basta, non la sappiamo cantare, non è cosa per noi, lasciamola agli altri. Lasciamola a quelli dell’Europa che conta, che probabilmente sanno che è composta in un melange di tre lingue - inglese francese e tedesco – da un tal Tony Britten sulle note di “Zadock the priest” di Hendel, che a sua volta, era il 1727, l’aveva scritta in onore di Giorgio II d’Inghilterra. Il cui significato, in verità, non è che sia così entusiasmante. Traducendola suona così: “Queste sono le squadre migliori, sono tutte le squadre migliori, l’evento principale. I maestri, i migliori, le migliori squadre, i campioni, i grandi ed i migliori! Una grande manifestazione pubblica, l’evento principale: questi sono gli uomini, loro sono i migliori, sono questi i campioni!”, e ricorda più la cantilena di un paranoico di uno sperduto Opg di provincia che la consacrazione della supremazia continentale nella pedata. Però, l’appetito vien mangiando. Il Napoli gioca bene mentre le altre, specie Juve e Roma, un po’ meno, e così arriva il 15 maggio: il pareggio con l'Inter e il terzo posto blindato ci spalancano le porte della maggior competizione europea, tra l'altro senza la seccatura dei preliminari. Qualcuno lo immaginava, nessuno lo aveva scritto, e non è che se ne era parlato così tanto, ripeto, per motivi scaramantici. Ma era un segreto di Pulcinella che sgorgava autonomo in ognuno dei milioni di tifosi: tutta Napoli voleva andare in Champions per sentire, una buona volta, la maledetta sigla suonare per noi. Perciò quando ieri sera, alla fine della vittoria con il Chelsea, tornando in metropolitana mi sono imbattuto in un giovanotto reduce dallo stadio ebbro di gioia e rapito dal canto, uno di quelli che non ti sbagli a immaginare alle prese più con Gigi D’Alessio che con Hendel, sono stato felice di sentirgli azzardare: “De cempions it’s meeee”. I campioni sono io. Si, sei tu.
Giovanni Chianelli

venerdì 17 febbraio 2012

..ma quale spazio ai lettori ..

Leggo il quotidiano "la Repubblica" da quando è uscito in edicola. Quasi la preistoria, direte. Dagli esordi mi sembrò un giornale dove ci fosse spazio per una certa libertà di espressione. O almeno questo davano ad intendere i suoi promotori ed i suoi padri tutelari. E ancora sembrava una possibile tribuna per chi pensasse cose non allineate, sgradite alla casta al tempo dominante. Ho conservato tenacemente questa opinione, nonostante i tanti passi falsi della linea editoriale del giornale che, per ovvi motivi di tutela della bottega, diventata nel frattempo un megastore, si abbracciava ai tanti bucanieri che si sono avvicendati sulla scena politica, tacendone colpevolmente le magagne ed esaltando i pure possibili meriti.
Per un certo tempo, durato quasi tre anni, ho persino collaborato alla rubrica la "parola ai lettori" dell'edizione napoletana del quotidiano, senza mai approfittare dell'occasione per interessi personali o di gruppo. Scrivevo quello che pensavo in relazione a certi fatti della vita cittadina con la soddisfazione di aver visto pubblicate una ventina di mie lettere. Che in qualche caso creavano repliche e civili dibattiti. Poi, per motivi assolutamente futili che, per rispetto di chi mi legge e per personale decoro ometto, è calata la scure censoria sulle mie lettere.
Un ostracismo spiegabile solo con la minutissima misura umana di un redattore di quel giornale. Una volta capita l'antifona, mi sono divertito a sfotterli in ogni modo, inviando lettere grazie alla complicità di amici, puntualmente pubblicate. L'importante è che non ci fosse la mia firma in calce alla mail.
Una volta ho anche tentato, sotto falso nome, di lamentarmi sul fatto che quello spazio che, ripeto, si chiama "parola ai lettori", era diventata una palestra dialettica dedicata, con poche eccezioni, alle esternazioni di politici o di rappresentanti di gruppi associazioni ed istituzioni. Chiedevo, con finto stupore, che necessità avessero, ad esempio, un consigliere comunale ed un tecnico incaricato di lavori pubblici di scambiarsi invettive ed accuse attraverso quello spazio. Ma non era una zona del giornale riservata agli umori di chi legge? Questi papaveri di mezza tacca non avrebbero potuto comunicare direttamente o chiedere - e sicuramente ottenere - ospitalità in altri settori del quotidiano?
La triste verità è che anche questa risorsa dei poveri cittadini napoletani, che sembrava una riserva indiana, è in realtà occupata dai politici locali attraverso i loro uomini di redazione. E questi fanno il bello ed il cattivo tempo. E non solo rispetto al caso minimo del vostro etrusco che non vede più pubblicate le sue riflessioni. C'è un blocco sostanziale che riguarda il modo di fare informazione, disposto a compromessi con tutti purché ci sia o un utile politico o una marchetta commerciale. E le tecniche sono pesanti ed invasive: dalla scelta o eliminazione dei collaboratori, alla esclusione della notizia non gradita ai manovratori.
L'ennesima delusione, ancora più cocente perché nelle nostre speranze era cresciuta l'idea di un mezzo di informazione creato per uno spaccato di società non collegato da tessere di partito, ma da sintonie morali.
Così va il mondo, non lo cambieremo con i lamenti. Però finché esistono ambiti di libertà, meglio percorrerli, senza timore.

lunedì 13 febbraio 2012

il rischio di prendersi troppo sul serio

Molti di noi camminano su un filo di coltello affilatissimo: basta lasciarsi un po' andare ed ecco che la caduta è certa e riuscire ad rialzarsi problematico. Parlo della diffusa tendenza a prendersi troppo sul serio, in un qualsiasi ambito della vita. Lavoro, famiglia, interessi culturali, immagine personale, persino nell'utilizzo del tempo libero. Un minimo riconoscimento di una qualità, magari sotto forma di un complimento regalato dall'amico che non ci vuole affondare e siamo subito pronti a credere di essere speciali, e che forse quello che ci siamo guadagnati nella vita è stato poco rispetto ai meriti.
Rare le eccezioni di persone con rimarchevole equilibrio emotivo. Per il resto siamo tutti nel gregge ad aspettare lodi e lusinghe. Finendo con il diventare inequivocabilmente ridicoli, specialmente quando le esperienze accumulate ci dovrebbero sgonfiare ad ogni piè sospinto e ricordarci la fragilità di ogni creatura umana. Che diventa grande solo quando sa scherzare di se stesso e riesce a farsi gioco delle proprie debolezze. Perché, è meglio che si sappia, ognuno ha la sua. E prima la scopre e la mette a nudo, prima riconquista serenità e vero gradimento da parte del prossimo. Uno che si sfotte con arguzia ti fa fare una risata e ti dispone bene al rapporto. Avrei qualche esempio tra i conoscenti, tanto di quelli pieni di vanità quanto di quelli che ti smontano con l'ironia.
E ancora, ditemi: chi non annovera tra gli amici un tuttologo? dove lo tocchi suona ed è capace di riflessioni illuminate, facendo ardito slalom in tutte le discipline del sapere. Molto spesso, se provocato dai soliti agenti provocatori, il nostro riesce a prevedere, antevedere e risolvere crisi mondiali. Basterebbe dargli retta tanto è convinto (?) della validità delle sue ricette. E invece .. il mondo prende altre direzioni ed allora .. che vada ramengo!
Credo di aver imparato - al contrario - che ciò che accade è sempre assai diverso dalle nostre previsioni: pare quasi che la vita sia tutta una serie di piccole e grandi sorprese, ora liete, ora tristi. Ma nessuna lieta sorpresa può compensarci dalla delusione che l'animo nostro prova passando da una grande speranza al compimento di essa!

giovedì 9 febbraio 2012

a ciascuno il suo tempo

Ognuno di noi ha un proprio ritmo mentale, un tempo personale in cui immagini e riflessioni si combinano. Capita però di incontrare e conseguentemente di scontrarsi con soggetti che hanno tempistiche del pensiero diverse. Pensate a quelli per noi troppo rapidi o lenti all'esasperazione... Si crea un autentico disagio ed effettivo impaccio nelle comunicazioni. Ognuno potrebbe aggiungere esempi calzanti, ben intendendo che non c'è uno standard universalmente riconosciuto al quale fare riferimento. Così con velocità mentali e capacità di approfondimento diverse si creano distonie che portano a grandi barriere ovvero a difficoltà interpersonali.
Stamattina ero con un giovane collega a Casavatore, hinterland napoletano a pochi minuti dal centro della città. Eravamo nell'officina di un signore che svolge attività di carrozziere. Quest'ultimo sentita una mia replica alla telefonata che nel frattempo avevo ricevuto, dal contenuto ha arguito di avere di fronte un avvocato. Quale occasione migliore per avere un parere gratuito che l'incontro fortuito con un medico o un avvocato? Il simpatico carrozziere parla per alcuni minuti, dando per scontato che io dovessi immediatamente cogliere non solo quanto detto, ma anche i suoi esempi e paradossi. Devo aver fatto una faccia da merluzzo del Baltico perché l'interlocutore si è mosso a pietà, adottando un linguaggio meno criptico. A quel punto il caso si è chiarito ed ho potuto formulare il desiderato responso.
Al commiato dai casavatoresi (?) il giovane collega, soggetto di rimarchevole preparazione e intuito, mi ha candidamente confessato che anche lui era rimasto confuso dall'esordio del nostro battilamiera e che solo dopo minuti è riuscito a capire il caso e che cosa volesse da noi.
Mi sono sentito confortato, avendo dolorosamente attribuito ai segni dell'età le mie iniziali perplessità. Vero è che il nostro interlocutore dispone di una velocità mentale almeno doppia della mia e senza un binario di collegamento avremmo rischiato di non intenderci mai.
Ovvero, come diceva il pensiero di un anziano signore a me caro: "Il linguaggio è come una superficie più o meno trasparente, simile a quella di uno stagno, di un lago, del mare. Le maggiori profondità rimangono invisibili. E come le tempeste degli abissi subacquei spesso non producono che un lieve increspamento, così i più profondi sconvolgimenti dell'animo sono inafferrabili."

venerdì 3 febbraio 2012

il sottoconversare di Eduardo


Rappresentare l’uomo Eduardo, a
margine del suo lavoro di attore,
nei momenti del dopo spettacolo e nelle pause
delle prove.
Questa l’idea creativa che ha animato Bruno Colella, autore,
regista ed anche interprete dello spettacolo “Io, Eduardo de Filippo” in scena
dal a febbraio al Teatro Acacia. Proposito complesso, specialmente a
Napoli, dove il desiderio di affermare il “mito” eduardiano secondo i più triti
schemi dell’aneddotica è tentazione
diffusa e difficile da scongiurare. La piece è animata, per converso, dal
“sottoconversare” dell’Attore negli spazi privati, fino a sfociare in libere
ricostruzioni quasi paradossali dei personaggi di contorno. Così in scena
diventa “carattere” il segretario della compagnia, Argenio, personaggio
apparentemente mite, al quale Eduardo indirizzava gli strali del suo cinismo
non sempre bonario, ma pur sempre ispirato dal rifiuto della volgarità e
dell’imbecillità. Spettacolo veloce, denso di contrasti, a tratti schizofrenico
che coinvolge attori con registri teatrali diversi, tutti a misurarsi con le
derive surreali volute dalla regia, circondati da una scenografia futurista di
significativo impatto che richiama il novecento, epoca nella quale si svolgono
le vicende rappresentate. Bene Colella, convincente nei tempi e nelle cadenze
sceniche del Maestro, pur rifacendosi ad interpretazioni già viste; brava Gea
Martire a pieno agio ad occupare spazi gestiti mediante una consapevole
sapienza attoriale; interessante, pur
mancando spunti di ispirazione assoluta, la colonna sonora di Eugenio Bennato
che ha dato musica ad alcune poesie eduardiane. Coraggiosi gli altri
interpreti, impegnati a marciare su terreni scarsamente battuti: Sebastiano
Somma, che appare peraltro coinvolto nell’idea teatrale di fondo, non può
sfoggiare la sua ben riconosciuta presenza scenica e resta quasi intimidito
dall’atmosfera soffusa e dal silenzio di molti momenti. Anche l’interpretazione
di Tosca d’Aquino fa percepire il disagio della mancanza sulla scena di situazioni “solari”. Così la
simpatica attrice cerca tra le sue corde i registri della macchiettistica che
la hanno reso nota al pubblico, con impennate non tutte in linea con lo spirito onirico e psicologicamente
complesso immaginato dal regista ed autore Colella. Poco da dire sulla prova incolore
di Marco Tornese, mentre le doti vocali di Nicola Vorelli stentano ad imporsi,
senza riuscire a convincere più di tanto. Il numeroso pubblico dell’Acacia ha
reagito bene, con una presenza attenta ed interessata, sottolineando con
applausi anche di incoraggiamento gli sforzi obiettivamente profusi da tutti i
protagonisti. Discordi invece i commenti dei critici teatrali dei mezzi
maggiori di informazione: ad un convinto riconoscimento della validità
dell’idea e della opportunità dell’iniziativa fa riscontro una stroncatura
abbastanza severa che, alla luce delle argomentazioni portate, non sembra del
tutto serena.