domenica 28 ottobre 2012

Gerard Malanga, provocazione per idealisti e polemisti

Poeta, fotografo, art performer, protagonista della vita culturale degli anni '60 e '70, amico di Andy Wharol e di molti altri artisti newyorkesi. Questa una scheda necessariamente affrettata di Gerard Malanga, nato nel 1943 negli USA, di chiare origini italiane, meridionali, quasi certamente lucane. 
Sarebbe un soggetto di grande interesse per una ricerca finalmente culturale di quei tanti giovani che sento riempirsi la bocca di orgoglio localistico. Ma che in realtà oltre che a dare vita a  stucchevoli polemiche personali non vanno. 
Gerard Malanga, ricordato per la sua bellezza ed eccentricità, icona gay del suo tempo, artista che ha attraversato come pochi altri la scena culturale del Village. Presente in tanti "happenings", tutti ispirati alla chiara provocazione intellettuale contro il conformismo che da sempre impone regole e comportamenti alla cultura USA, attraverso il denaro di potenti fondazioni, tutte riconducibili ai poteri mediatici di quel Paese.
Un invito rivolto ai tanti "sepensanti"  testa d'uovo che gravitano intorno alla Basilicata perché si mettano sulle tracce di Malanga, ancora vivo e vegeto, per domandargli delle sue origini e dei lucani inseriti nel mondo dell'arte della Grande Mela.
Chiedergli come lui,  il figlio di un profondo Sud, sia arrivato nei circoli che contavano, dove stava prendendo corpo un fenomeno di imponente trasformazione del modo di intendere l'arte visiva e l'immagine.
Mi piacerebbe scoprire così che quel Malanga ha radici in quella zona del potentino dove quel cognome è assai diffuso. Sapere della sua formazione personale ed artistica, chiedergli se in casa sua si parlasse come prima lingua il nostro dialetto. E quali altri usi nostrani si fossero conservati.
Avanti giovani idealisti e polemisti. Datevi da fare, il mio è soltanto un suggerimento. Scegliete voi l'argomento da sviluppare, ma uscite dalla morta gora delle reciproche invettive. Date un senso ai vostri furori, trovate un campo di battaglia che restituisca spirito e fantasia alle vostre divergenze. E, ancora, non vi fate strumentalizzare da chi ha soltanto voglia di mettere il suo piccolo e meschino giogo al minuscolo potere su un paesino di poche migliaia di anime.
Volate più in alto, fate sentire a tutti che i secoli non sono passati invano. E che il fatto che moltissimi di voi sappiano leggere e scrivere ed abbiano voglia di imparare serva a tutto il resto della comunità per crescere in consapevolezza e senso civico.

mercoledì 24 ottobre 2012

Baroni tanti, signori pochi

Per fortuna c'è ancora chi ci ricorda le cose come stanno davvero. Ancora una volta la rubrica quotidiana L'amaca di Repubblica, curata da Michele Serra, in poche righe riesce a fare la sintesi di troppi e spropositati commenti sulla "querelle" tra don Patriciello e il prefetto De Martino. Sentite:

Il prefetto di Napoli è stato subissato da una tale quantità di critiche e sberleffi (meritati) che si esita a infierire.
Ma c'è un punto, potentemente politico, che merita una ulteriore  riflessione. Il prefetto non sa che "signore" (e ovviamente "signora") è molto più di prefetto, eccellenza, commendatore, cavaliere, dottore. Più di signore - che vuol dire Sire ed è il titolo onorifico di Dio - non esiste nulla. E mano a mano che un appellativo così assoluto diventa appellativo di tutti, finalmente ciascuno diventa signore di se stesso: è la democrazia.
Il prefetto De Martino ha parlato nel nome di quell'inguaribile notabilato meridionale - e più in generale di quella inguaribile piccola borghesia italiana - che vive di titoli, onorificenze, diplomi da appendere dietro la scrivania, perché non è mai stata contagiata dal virus liberatorio della con-concittadinanza. Quel virus che la Rivoluzione Francese tentò di esportare quasi ovunque, nel nostro povero Sud morì infilzato sui forconi della Santa Fede, ferale alleanza tra plebi servili e baronie neghittose, con la benedizione del papato. Le conseguenze le paghiamo ancora: abbiamo molti parrucconi, pochissimi signori.

Baroni tanti, signori pochi

lunedì 22 ottobre 2012

Serve ancora votare?

Secondo i risultati di un recente sondaggio gli italiani vorrebbero un governo espresso dalla maggioranza che emergerà dalle prossime elezioni, a condizione che a guidarlo ci sia il prof. Monti. "Il dilemma della democrazia rappresentativa, scrive Ilvo Diamanti su "Repubblica" è tutto qui. se il voto non serve a scegliere chi governa attraverso i rappresentanti eletti, a che serve votare?"
Dilemma nemmeno tanto paradossale e neppure inedito. Per quasi cinquant'anni, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, l'assetto dei poteri internazionali ha di fatto impedito una vera alternanza, per la presenza in Italia del maggior partito comunista della sfera "occidentale". Giorgio Galli, a questo proposito, parlava di "bipartitismo imperfetto" perché doveva governare o la DC con coalizioni gradite agli USA oppure da sola. Al PCI, forte di milioni di consensi, spettava di guidare l'opposizione, avendo un proprio peso in molte   scelte. Questo fino al 1989, cioè  al momento dello storico crollo del muro di Berlino. Pur consapevoli dell'impossibilità di mutare questo assetto deciso altrove, gli italiani hanno continuato a votare, con percentuali alle urne vicine al 90%, tasso di partecipazione tra i più alti del mondo occidentale. Il voto era pro o contro la DC, talvolta sfiancata dagli alleati di coalizione che si chiamarono PLI, PSDI, PSI, PRI, e sullo sfondo la Chiesa e la sua influenza.
Nella seconda Repubblica questo modello sembrava tramontato. Ma non è stato così davvero, perché a ravvivare i fantasmi del comunismo ci ha pensato il nano di Arcore. E' cominciata così la stagione di anticomunisti contro antiberlusconiani, veri e propri referendum sulla fiducia che gli italiani riponevano su questo leader venuto dal niente. Mentre i votanti erano indotti a scegliere nomi voluti dai partiti e dai loro leader.
Fino ai giorni nostri, in cui nessun partito appare davvero credibile. In parte per la disinvolta disonestà che ha percorso trasversalmente tutti gli schieramenti, ma anche per il consolidarsi di queste scelte sul premier.
Oggi la partecipazione elettorale appare separata da quella del premier. Gli italiani o parte di essi vogliono ancora votare, ma a guidare il governo pretendono ci sia un tecnico, perché hanno imparato a non fidarsi dei partiti. Si vota cioè non per impostazione ideologica, ma pro o contro i partiti.
Lo suggerisce il successo travolgente del movimento 5 stelle che raccoglie tutti gli umori dell'antipartito e sostiene un concetto del tutto nuovo, la democrazia diretta attraverso la rete.
Mentre si dilata dismisura l'area degli incerti, che avvicina il 50% degli aventi diritto.
Una nuova stagione si profila: quella della dissoluzione dei partiti come li conoscevamo un tempo e resta una prospettiva inquietante Che un premier come Monti governi da solo in mezzo a tutti e contro tutti.





venerdì 19 ottobre 2012

Bohemian sound - La maschera ed il volto di Zeman

Una recensione letteraria di Giovanni Chianelli


Zeman è grande e Sansonna il suo profeta.
Dopo 'Zemanlandia', e 'Due o tre cose che so di lui', documentari poi confluiti in un cofanetto edito da Minimum fax, il regista barese torna sulle tracce del tecnico boemo con 'Zeman, un marziano a Roma', sempre per i tipi della casa editrice di Ponte Milvio.
Questa volta Sansonna si trasferisce in Alto Adige, nel ritiro dei lupacchiotti alla cui guida Zeman è tornato dopo quindici anni passati sulle panchine di mezza Europa. Una favola il cui fine sarà sempre lieto, a prescindere dai risultati dei giallorossi: la serie A ritrova uno dei protagonisti più amati e discussi, artefice di gioco spumeggiante e feroce critico dei guasti del calcio.
Passato per la Gehenna delle serie inferiori, negli anni ritrova una seconda giovinezza ma resta quello di una volta: maschera muta, eppure ipercomunicativa, amore da padre putativo per i suoi talenti e ghigno ineffabile dedicato ai nemici.

Sansonna, con l'arte del cesellatore, in questa maschera ci è entrato ormai da anni. E ne conosce a memoria la semantica, riuscendo a riprodurre la parlata senza articoli, considerati fronzoli da sfrondare; la perentorietà di intenti, scanditi da sentenze e precetti; i tic lessicali, esemplificati dalla cantilena in cui remixa i brani del suo amato Battisti.
Quello che i lettori troveranno è uno Zeman passato ai raggi x, colto nelle passioni musicali (Venditti) e negli scarti di una disciplina ferrea, ma non tanto da impedirgli eccezioni: come quando, istigato da Totti, per scommessa si fa a nuoto tre vasche in apnea. Il rapporto con il Pupone è uno dei capitoli più interessanti, in cui Sansonna contrappone il gelo dell'uomo di Praga ai vezzi da Rugantino del capitano giallorosso, ottenendo la miscela che muove Zeman da anni alle nostre latitudini: il fascino, da parte di uno cresciuto in un regime comunista, metodico fino alla mania, per l'Italia barocca e caciarona, regno delle truffe e del calore, dell'imprevisto che è più prevedibile del previsto.

A una lettura più profonda, ci si rende conto che il periodico stigmatizzare gli scandali calcistici appartenga ad una precisa ossessione del boemo: in una dinamica di attrazione e ripulsa per ciò che è torbido. Ma il pregio del libro è, per una volta, mettere in un angolo le polemiche e il ruolo di Zeman nel nostro sistema calcio: partendo dal ritiro estivo, l'autore ci immerge in una divertentissima teoria di aneddoti, rimandi, ricostruzioni di un ambiente, quello della Roma del nuovo corso dei 'god father' stelleestrisce, con il suo cascame di folklore e indotto commerciale, che rende il paesino altoatesino una filiale di Disneyland. Per lo scetticismo di Zeman, la cui sobrietà è nota, più a suo agio con corse e sacchi di sabbia, per tonificare i muscoli dei suoi atleti, in nome di quell' "efferato sadismo ginnasiarca" di cui fu accusato da Gioan Brera.

Perfetti i passaggi sulla preparazione atletica cui vengono sottoposti i giocatori, snelliti e rinvigoriti dopo un anno di vacuo intrattenimento agli ordini del 'progettista' Luis Enrique; al confuso, velleitario "tiki taka" asturiano, il tono marziale dell'allenamento zemaniano suona come un ritorno all'ordine. Mentre grappoli di vamp di mezz'età, "che assecondando facili categorie mentali viene da immaginare come estetiste del Tuscolano", testimonial del 'generone' capitolino che va in vacanza dove la squadra si allena, si sdilinquiscono per i muscoli dei giovani miliardari in mutande, e un palchetto con presentatore strapaesano festeggia la presentazione della squadra in clima tra Festivalbar e sagra della porchetta.

Sansonna precipita i contrasti di queste due settimane, tra echi del passato e aneddotica da trovatore, con precisione chirurgica e stile definitivamente letterario. In una cifra che pesca da Gadda, Bufalino, Manganelli, ma che è ormai sansonniana, una lingua in cui l'arabesco è sensato, il beau geste lessicale sempre funzionale alla resa dell'atmosfera, vuoi epica vuoi grottesca, dell'universo zemaniano: "Il tramonto della val Pusteria è una palese prefigurazione dell'Eden [...] la folta distesa di conifere, i fiori multicolori, il verde brillante della prateria. La prova lampante dell'esistenza di Dio, che convive con la sua più beffarda confutazione", dove De Gregori è messo al servizio di un affresco che sintetizza il delirio di fanatismo, marketing e eterno ritorno dell'imbroglio che è il calcio nel suo lato deteriore. Dove il tecnico boemo si è sempre sentito un alieno, ma che, fuori dalle vesti espiatorie che spesso, comodamente, l'intellighenzia gli ha tentato di cucire addosso, ha continuato ad amare con la nettezza del suo credo: "Questo non è un villaggio turistico".

mercoledì 17 ottobre 2012

Scrivere, che passione

Etruscamente presuntuoso, immagino di avere qualche lettore. Gente di bocca buona oppure il classico amico che ti segue, vuoi per farti le bucce o per affetto. Uno, dieci, nessuno? Non è certo questa la mia preoccupazione mentre mi accingo a "bloggare" la mia terra etrusca.Per me è un un diario, certamente meno sincero della classica agenda che si tiene nel cassetto al riparo dagli occhi degli altri. Mia madre ha scritto il suo diario per oltre trenta anni sulle agende che di volta in volta le dovevo procurare. E che dovevano avere un certo formato oltre ad un aspetto esteriore piacevole. Non so se qualcuno di noi riuscirà a leggere quelle memorie. Ci servirebbe tanto, specie a chi oggi rivede in fase soltanto critica l'atmosfera e le dinamiche familiari.
Ma tornando a noi o forse soltanto a me ad al mio eco informatico, ho scelto la modalità del blog perché mi consente di mediare tra i mal di pancia istintivi e la rappresentazione formale.
Come tutti anche il vostro etrusco ha le sue incazzature e turbolenze intestinali. Ma quando devo trasporre le idee sulla carta mi sforzo di essere meno fazioso ed "etruscocentrico". Rileggo le parole e l'impatto che mi fanno. Ed in molti casi comprendo che una posizione va mitigata, un atteggiamento smorzato in favore degli altri. Che in parecchi casi non ho ragione. 
Non mi sembra risultato da poco. Rileggersi, mettersi in discussione, accettare il contraddittorio delle altre opinioni, dover ammettere che c'è anche un'altra possibile interpretazione rispetto ai fatti della realtà.
Un libro, un film, un dibattito politico o civile, una musica. Sono questi i miei filoni di ispirazione mentre mi accosto al mio amato blog.
Da un po' di tempo sto covando un'idea forse perversa. Ma che siccome è la mia vale la pena di essere presa in considerazione.
Ebbene si, miei amati lettori - il numero è sempre imprecisato - sto portando a termine la mia prima compiuta fatica letteraria. Ero preoccupato di far parte di quella ormai minima percentuale di italiani che non avesse mai dato alla luce un libro. E così da giorni mi arrampico sulle impervie strade dello scrittore. Senza sapere da che parte si incominci e con una appena accettabile cultura media. L'idea, il "plot" del romanzo - perché è di questo che si tratta - sta prendendo faticosamente forma. Una storia banale, come molte delle mie esperienze, ma mi sta prendendo la mano. E pare che proprio questo raptus  di incontrastabile vigore sia  il sintomo che identifica i colpiti dal virus della scrittura.
Ne vedremo delle brutte..








martedì 9 ottobre 2012

Mi pento, fortissimamente!

E' arrivata pure per il vostro etrusco l'ora del pentimento. Forse mi inseriranno in uno programma  di protezione e ci guadagno. Chi lo può mai dire? Ma ormai ho deciso. Tempo fa' mi sono pentito dall'essere stato per anni sparatore di botti. A ragionarci ora mi struggo a pensare su come avessi fatto  a non capire che si trattava di una fesseria, pericolosa e fonte di illeciti guadagni. Ma gli anni si attraversano anche per questo: avere il modo di riflettere sulle proprie castronerie e cambiare strada. Su quante altre cose ho nel tempo ripensato? Tante e non irrilevanti. Si sa, l'imprinting te lo da la famiglia e l'impostazione di altri soggetti. Magari avranno anche i loro meriti, ma alla fine, la vita appartiene a ciascuno di noi. E proprio per questo è giusto, se non doveroso, uscire dalle orme già tracciate e trovare un percorso proprio. Che si alimenti dei propri errori, delle convinzioni che la vita ci assegna e che non risenta soltanto della vita di altri.
Io ho deciso di abbandonare il calcio! Spero di non fare soltanto del moralismo, ma un ragionamento con ancoraggi alla realtà. Il sistema televisivo generale ci presenta partite di calcio ad ogni piè sospinto. Orari serali, di mezzo, lunch time. Un orgia di pallonate che, fatte le poche eccezioni meritevoli, sarebbero per la gran parte da dimenticare. Ma questa invasione sistematica e preorganizzata intende intrappolare il malcapitato soggetto passivo, rendendolo sempre più succube e meno autonomo nelle decisioni. Senza tener conto dei guadagni stratosferici di queste emittenti a pagamento che si possono permettere di finanziare tutto il calcio mondiale ed i suoi capricciosi protagonisti.
E penso che, venti anni or sono, seguendo le medesime suggestioni. ho smesso di bere una certa bevanda gassata di colore scuro proprio perché vedevo gli artigli dei padroni affondare anche nelle mie carni ed impormi comportamenti non voluti. Non solo quindi perché quella bibita è un'autentica fetenzia dalla formula semisconosciuta, ma  poi perché quel "brand" esclude tutti i concorrenti. Nei bar delle nostre città e paesi il titolare che non accetti quel marchio non riceve  una serie di altri prodotti e rischia di finire fuori mercato. Una politica commerciale fatta di prezzi e veti per gli altri competitori che finisce con l'emarginazione dei produttori minori.
E' così mi propongo di vedere il calcio solo su canali in chiaro e magari quello minore, lega pro e serie "d" o l'interessante calcio femminile. Che, almeno per il momento, ha spunti di grande interesse e viene giocato con sempre maggiore capacità. E ancora, cosa che non guasta affatto, con una lealtà sportiva assolutamente diversa da quella dei maschi.