giovedì 10 settembre 2009

da Repubblica Napoli 20 agosto 2008


"La munnezza a vui, lu viento a nui". La scritta che campeggia sul cartello di zio Armando, il vecchietto che apre il concerto di Vinicio Capossela ad Andretta, è già un manifesto. La festa cessa ieri, alle tre del mattino. Campo trebbiato, vista immensa della Valle e pale eoliche sullo sfondo. Lo scenario è perfetto e lo sciamano sa come gestire la liturgia. Inizia sciorinando una filastrocca che può essere tanto improvvisata sul momento, quanto pescata tra qualche stornello locale. Nella parlata roca di Vinicio sfilano tutti i paesi della zona con i loro tratti caratteristici: Bisaccia l' elegante, Conza l' annebbiata, Calitri la pazza. «Queste sono le contrade che si affacciano sull' Altopiano del Formicoso, terra di canti e schiene curve. La gente di qui è instabile: incendia la terra, coltiva la terra, difende la terra». Segue ovazione. Comincia la musica. La celebre "Maraja" resta l' unica del repertorio classico. La canta imbracciando una scopa di saggina, tanto per poggiare quello "Spazzincut" con cui attualizza la formula magica che conclude il brano. Poi suonerà solo canzoni locali, o meglio conversazioni. Strofe imparate nella bottega di barbiere e all' osteria, dove si dice Capossela si attardi spesso con gli anziani del posto. "Oi Filumena", "La femmina calitrana", "Faccia di Corvo". E parecchie poesiole del vate indigeno, Matteo Salvatori, come "La cantata de li pezzienti". A volte il pubblico si spazientisce, vorrebbe una sua hit. «Smettetela di fischiare o di fare richieste. Questo è il meglio che possiamo offrirvi, specie stasera», li rimprovera con fermezza. Per il resto è in estasi, Vinicio. Sul palco fa salire bande locali e matti di paese, gente a cui nessun altro darebbe spazio. Lo trattano come un nipote un po' mattacchione ma educato, «con la faccia di San Gerardo». Vinicio alza tre dita e si blocca ieratico, a benedire. Per il resto, nessuna accusa diretta al governo. Come se fosse rimessa alla stessa terra, i suoi canti e la sua gente la sentenza perentoria. Una dimostrazione di pulizia e bellezza contro le intenzioni «sporche» che piovono dall' alto. Ma in fondo è una messa di pace: quando uno stornellatore di Calitri intona "O sole mio", Capossela dichiara la riconciliazione avvenuta tra il vituperato capoluogo e «questa landa franosa, il Formicoso. Un posto da formiche laboriose. Un nome che conosce solo chi lo vive, come tutti i posti dove si tutela la terra. Macchia soprana, Lo Uttaro, Rosa dei Venti e Terzo Cavone a Scanzano. Nomi che appartengono alla gente e a nessun altro. Guardate quanto è bello e non temete il buio. Il buio aiuta a vedere tutt' intorno». - GIOVANNI CHIANELLI