lunedì 4 luglio 2011

giocare con le parole

"Grazie, per te è facile. Tu giochi con le parole ed è una palestra a cui sei abituato da bambino e dove ti hanno accompagnato per mano genitori acculturati. Non hai dovuto fare i conti col dialetto, con l'ignoranza o forse con una conoscenza linguistica diversa. Un ceppo linguistico differente, attraverso il quale i concetti prendono forma utilizzando una struttura aspra, mai docile." A quel tempo mi sembrò un discorso strano. Tanto più se fatto dal professore di italiano e latino. Uomo di meravigliosa bruttezza e di ridotta comunicativa: ma al tempo stesso seducente ed ammaliatore rispetto ad una corposa scolaresca di liceali mediamente dediti al fancazzismo. Parlava piano e dovevi aver voglia di seguirlo. Ma questa voglia veniva a molti, anche se non a tutti, persino quando l'argomento trattato era fuori dagli schemi del sapere ufficiale. Era un docente a mezzo servizio con l'Università ed in quel periodo stava scrivendo un libro su Giovita Scalvini, autore non particolarmente noto. Ma per lui e di conseguenza per quelli che in classe lo seguivano, divenne un nome di autore paragonabile per importanza ai padri della lingua. Ed un giorno mi interrogò in latino, insieme a due tra i più bravi. Aprì a caso il libro di testo, chiedendoci di tradurre un brano dal "classico"di quell'anno - Virgilio -. Con lo sguardo implorai una compagna, in cerca di aiuto. E quella, forse giustamente, me lo negò. Erano fatti miei e delle mie manchevolezze. Gli altri due sottotorchio conoscevano il testo, traducevano benino, ma senza voli, integrando la versione con note di letteratura. Io ero intimamente disperato, ma mi inventai un paio di soluzioni e di osservazioni sui protagonisti dell'opera che al prof parvero geniali. E prese ad interessarsi a questo strano caso umano che, invece di confessare quello che lui bene aveva intuito, continuava ad improvvisare in modo fantasioso. Mandati al posto i due preparati, si tenne lo sfrontato sulla graticola. Ed alla fine dell'interrogazione tra di noi si era stabilito un sodalizio quasi affettuoso. Finita l'ora lui, uomo schivo e sostanzialmente timido, mi chiese di accompagnarlo al piano di sopra. Dicendomi tra le scale: "Tra te e quei due saputelli non c'è gara. Ti ho messo "7". Ma non ti illudere. La tua facilità di linguaggio non è merito tuo. Forse giusto la tua improntitudine è un dono. Ma se continuerai a non praticare i libri di testo l'attuale sistema scolastico ti considererà sempre una mezza pippa. Non ci sono docenti disposti a lavorare sugli scansafatiche, anche se di qualità. Il classico professore non ti chiede altro che rigurgitare un pasto masticato di mezze notizie libresche e di imparaticcio dal loro poco sapere. Con il minimo sforzo per loro, strafregandosene di te e di tutti gli altri compagni. Purché non non siate fonte di problemi o di impegno."
Discorso strano, dicevo. Specie se riportato al 1965, anno del mio secondo liceo classico. Tempi duri, in particolare per certe scuole che avevano triste fama di stronca - scolari e dove la rigidità era la regola.
Credo che anche oggi ci siano professori capaci, che amano i giovani ed il loro sviluppo. Bisognerebbe però chiedersi che percentuale rappresentino nell'universo scuola che invece appare in prevalenza come una inutile forma di intrattenimento di adolescenti. Incapace di passare elementi di logica e di ragionamento; creata su misura dell'ignoranza media e quindi inidonea a rivelare a chicchessia i suoi talenti. La degna anticamera dell'attuale stato di precarietà e di non occupazione di un giovane su tre.
Ci vorrebbe umiltà e buona fede per cercare strade diverse. Questa, non c'è alcun dubbio, produce delusione ed emarginazione giovanile.

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