mercoledì 13 giugno 2012

lettera ad un padre

Caro Mimmo,
ti scrivo nella notte tra il 3 e il 4 giugno 2012. Nella notte, cioè, in cui compi cinquantanove anni. Lo faccio perché sono incapace di farti altro regalo che non sia questo. Lo faccio chiamandoti per nome perché non sei solo mio padre, ma anche amico e complice, in questo momento, in questo periodo in cui non ho ancora smesso di esserti solo figlio e però vivo ancora con te e con la mamma. Lo faccio perché sei anche una guida, e arriva sempre il momento in cui il tuo spirito guida ti dice che puoi chiamarlo per nome.
Io so che tu sei Jimi Hendrix. Da piccolo guardavo il quadro del vecchio Jimi nel salone ed ero convinto che fossi tu, che tu fossi negro. Tu da giovane eri così, sempre abbronzato e magrissimo, con quei capelli riccissimi e neri. Sei il rock e il jazz, il blues, tutta la musica che mi hai passato senza spiegare. Tu sei Otis Redding che fischietta quella canzone sul molo. Sei i quadri che hai dipinto e che nessuno conosce perché non ti sei mai spacciato per pittore. Sei tutte le lampade e gli oggetti che hai costruito con le tue mani mentre mi raccontavi le trame dei film di fantascienza. Sei il Boris Vian de La schiuma dei giorni, che forse non hai neppure letto, ma sei proprio tu e vuoi salvare a tutti i costi la povera Chloè. Io ti ho visto rimanere sveglio per due giorni quando non sono stato bene. Ti ho visto rincorrerti e poi smettere per dedicarti alla mamma. Quando racconto di te in giro, quando racconto tutte le cose che so di te e che tu neppure sai, ho di fronte un pubblico in adorazione; perché, papà, la gente pensa che esistano le persone interessanti. Pensano che tu sia un tipo strano, un papà originale, ma non è quello il punto, e ogni volta devo spiegarlo. Se c’è una cosa che ho imparato da te, infatti, è che non esistono le persone interessanti: esistono le persone, punto, quelle vere.
Adesso che ci penso sembra che stia scrivendo da orfano. Ma non è così e tengo a precisare che sei vivo e vegeto, e che ti scrivo pubblicamente, da vivo a vivo, non solo per farti un regalo o, peggio, per un malcelato desiderio di autoviolazione della privacy; ti scrivo in questo modo perché se c’è una cosa che non si fa o si fa in maniera retorica, è ammettere quanto si sia debitori, nel bene e nel male, a un genitore. Potrei dire che i miei maestri si trovano tra i libri e i dischi, tra i filosofi e gli esegeti di questi tempi malaticci; ma io non sarei mai arrivato a quei libri e a quei dischi e a tutto il resto se non fosse stato per te. Soprattutto, tu oggi compi cinquantanove anni e li porti come dovrebbe portarli un uomo della tua età, e sei arrivato a questa età senza nascondere il peso e le amarezze che la contraddisintguono. Non ti sei nascosto, mai, e di questo soprattutto ti sono grato. In te ho visto l’uomo, non il feticcio inesistente che di volta in volta necessitiamo di innalzare a mito o distruggere, secondo la moda del momento. In ogni mossa sei stato tu, non un altro, l’unico Mimmo Montanaro che esiste al mondo. Porti il peso delle tue scelte e delle tue responsabilità come si porta sulle spalle un bambino: nel più naturale dei modi.
Arriva un momento – per me è arrivato molti anni fa – in cui comprendiamo che i nostri genitori sono uomini e donne, prima ancora che padri e madri. Uomini e donne che ci hanno messo al mondo e che con noi hanno imparato un mucchio di cose. Quel momento è molto traumatico e per me lo è stato, in effetti; ma al tempo stesso è stato un passaggio necessario. Così è stato necessario vederti soffrire e gioire, e poi ancora, per comprendere che sei un uomo; e che tipo di uomo sei. Come genitore non mi saresti bastato, in una vita intera non ci si può accontentare di esser solo dei figli per un genitore. E viceversa.
Così c’è stato quel viaggio. Tre anni fa, in questa stessa parte dell’anno. Io dovevo fare una cosa a Roma e l’unico modo che avevo per andarci era andarci in auto con te. Io lo sapevo che non ce l’avrei fatta in altro modo. Te l’ho detto come un gioco, “Andiamo a Roma”, e lo hai saputo anche tu, che era per me che dovevi farlo. Hai guidato tutto il tempo, per una notte e un giorno, e mentre io ero con gli altri tu sei andato a vedere Caravaggio per gli affari tuoi. Ci sei stato senza dire nulla, senza aspettarti nulla in cambio, come ci sei sempre stato non solo come farebbe un padre, ma con qualcosa in più. Questa cosa io spero soprattutto di imparare da te, la disponibilità umana. Che significa fare quel che si può e anche qualcosa in più, e non chiedere nulla in cambio. Non so se ne sono capace, anzi, sembrerebbe di no. Ma ho tempo per migliorare. Intanto non si contano le volte che mi hai raccolto in condizioni pessime, non si contano.
Sopra ogni cosa, però, mi hai insegnato a usare la mia testa. Mi hai insegnato il dubbio che viene dopo l’ascolto, solo dopo l’ascolto. Non mi hai negato nessuna esperienza, però so che non mi avresti perdonato se mi fossi mosso senza usare il mio cervello. A vent’anni, con netto ritardo rispetto a te o alla mamma, mi sono avvicinato alla politica. Avrebbe fatto comodo un figlio che la pensava come te, ma sei allergico al pensiero chiuso in se stesso e anche quando mi sono avvicinato al partito con la falce e il martello mi hai detto: “Ascolta tutti, ma usa la tua testa”. E così è sempre stato anche in seguito, in tutti gli ambienti che ho frequentato o che frequento. Così ho poi fatto anche con te e infatti non andiamo d’accordo quasi su niente, anche se a volte ci contraddiciamo solo perché siamo simili e innamorati allo stesso modo della chiacchiera e dell’esercizio retorico che impedisce di dar ragione agli altri.
Ti scrivo in un anno molto particolare. Mi sono accadute cose molto intense, diciamo così, cose che – pensavo – sarebbero arrivate, come dire, un po’ più dilazionate nel tempo (un po’ prima o un po’ dopo). Cose che ti fanno perdere il controllo, che ti fanno montare la testa o te la fanno perdere del tutto; eppure ritengo di avercela ancora sulle spalle, questa mia benedetta testa, anche un po’ più di prima (buona o cattiva che sia, non ha importanza, è sempre quella). Ecco, se tu ateo non mi avessi insegnato a non essere uno stupido e blasfemo materialista, se tu, a volte raggomitolato tra i tuoi fantasmi, non mi avessi insegnato l’apertura e la curiosità verso gli altri e l’inutilità e la volgarità della prevaricazione e del possesso a tutti i costi, se tu non avessi incoraggiato il mio spirito critico, probabilmente le cose che mi sono accadute mi avrebbero mangiato vivo. Invece mi hanno solo rosicchiato qui e lì. Sono tutto intero, Mimmo. E, a quanto pare, più passa il tempo e più ti assomiglio, anche fisicamente (anche se tu alla mia età i capelli li avevi fin sulla fronte, o almeno così dice la mamma).
Ecco, se io dico queste cose in pubblico, non è solo per vantarmi d’avere un buon padre; ma per dire che persone così esistono. Non si tratta di santi o divinità, ma di uomini, e questo è quanto trovo di buono ancora nell’umanità a trent’anni.
E c’è poi un altro motivo: perdiamo l’abitudine a dire le cose in tempo. Per orgoglio o imbarazzo, manchiamo l’incontro. Ma una cosa che ho imparato a mie spese, e anche, purtroppo, guardando alle tue esperienze, è che le persone ci sono quando e finché ci sono; dopo è troppo tardi, perché vanno via (e ne hanno tutto il diritto) o muoiono o che so io. E allora certe cose bisogna dirle in tempo. Non c’è altra scelta, e fanculo a cci ni voli male.
A proposito: quando le cose non vanno tanto bene, prendo a canticchiare (tu dici che non lo faccio mai, ma non è vero) quella canzone di Cat Stevens che spesso tu hai cantato a me. E allora per farti un piccolo sgarbo (è il massimo dello sgarbo che posso permettermi a quest’età) la metto qui nella versione di Johnny Cash, artista che tu non hai mai amato particolarmente – e questa è l’unica cosa che non ti perdono, ma fai ancora in tempo a recuperare, i dischi li ho tutti.
Auguri, papà. Cinquantanove non sono pochi e non sono molti. Non ci crederai ma anch’io un tempo ero come te, e so che non è facile, sei ancora giovane, e questa è la tua unica colpa…
Come continua?

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