lunedì 29 settembre 2008

tavola rotonda 4.10.09


Nel porgere il mio saluto ai presenti, trovo doveroso ringraziare chi ha voluto che io intervenissi in questo qualificato contesto. E’ stata per me l’occasione di riprendere tra le mani un libro incontrato oltre 25 anni fa e rileggerlo ora in un’ottica di diversa e di più pacata riflessione.
Lo sviluppo della vicenda sarà davanti agli occhi dei presenti che seguiranno la mirabile trasposizione cinematografica di Rosi, opera fedele allo spirito del testo. Il film lascia quella falsariga solo per sfruttare le possibilità del mezzo cinematografico, attraverso qualche momento spettacolare.
Levi, intellettuale legatissimo al cinema, con il quale era stato in stretto contatto, introdotto nel mondo delle sceneggiature, avrebbe verosimilmente assai apprezzato la rilettura portata dal regista sugli schermi.
Avrebbe soprattutto fatto proprio quel connotato pittorico dell’opera, la stessa atmosfera per immagini che pervade il libro.
Perché Carlo Levi era soprattutto un pittore o meglio tale si considerava, ancor prima di pensare a se stesso come scrittore o giornalista.
Alto borghese, naturalmente introdotto nel mondo intellettuale, nipote di Treves, il fondatore del partito socialista, amico di grandi pensatori, giovanissimo, porta a compimento gli studi di medicina, probabilmente per influssi familiari.
Lui, che aveva la vocazione e la passione della pittura e che aveva intimità amicale con Felice Casorati e con le principali personalità pittoriche del tempo, vedeva nella professione medica una specie di prezzo da pagare alla sua estrazione di agiato borghese.
Ma la parte intellettuale che era in lui non gli consentiva, specie negli anni giovanili, di vedere circoscritte le sue aspirazioni alla sia pure prestigiosa carriera sanitaria.
Il desiderio di conoscenza che lo animava aveva tanti orizzonti; dalla amata pittura al giornalismo, alla saggistica, all’ analisi sociale fino ai conseguenti approfondimenti nei temi della politica.
Eravamo però a metà degli anni 30 e l’Italia viveva da poco più di dieci anni l’esperienza di un regime che riusciva a mettere insieme, in una forma tutta italiana, il ridicolo, il grottesco e la compressione dapprima strisciante, delle libertà di pensiero e di espressione.
Uomini come Carlo Levi non avevano bisogno di influenze familiari per schierarsi.
Dall’altra parte del potere, ovviamente, sia pure con la cautela che compare in scritti che tentavano di affermare i diritti della ragione e delle conquiste di tutti i popoli della terra contro la barbarie dell’autoritarismo.
Per una precisa posizione culturale coerente con le sue idee, considerava la pittura manifestazione di libertà, in contrapposizione non solo formale, ma anche sostanziale, alla retorica dell'arte ufficiale, secondo lui sempre più sottomessa al conformismo del regime fascista e al modernismo ipocrita del movimento futurista.
Iscritto al movimento Giustizia e Libertà dei fratelli Rosselli, diventa bersaglio dei fascisti e per questo confinato nel 1935 prima a Grassano e poi nel piccolissimo Aliano, nel libro Gagliano.
Straordinarie le descrizioni di Levi che vede luoghi, persone ed atmosfere con gli occhi del pittore e che di quella visione manifesta una caratteristica straordinaria, quando descrive minuziosamente visi, corpi, occhi di chi incontra.
Per dirla con le parole di un recentissimo articolo di Pietro Citati, quando sottolinea la differenza tra le attitudini dei maschi e delle femmine, Levi denotava una sviluppatissima parte femminile, che gli consentiva di ricordare dettagli e particolari di chi gli era davanti. Dice Citati “La donna .. coglie l’atmosfera, il colore ed il profumo di ogni istante di vita: ricorda i vestiti, i golf e le scarpe, i costumi da bagno, i cappelli portati durante la propria esistenza..”
Ma ancora più straordinaria emerge l’umiltà del narratore, ricordiamolo, un intellettuale del nord, che non giudica e nemmeno tenta di inquadrare nei propri parametri cittadini quella realtà.
Si avverte un senso di sgomento nelle descrizioni, ma che non nasce dalla “puzza sotto al naso” del signorino settentrionale in terra di cafoni. Comprende come quella gente abbia bisogno di un riscatto ed intuisce quanto per gli abitanti di Grassano e Gagliano sia persino difficile arrivare alla consapevolezza di questa necessità. Quegli individui che escono di casa alle prime luci dell’alba per avviare un’impari lotta con i loro campi di argilla non potranno alimentare nei cuori che rassegnazione. E nemmeno la fugace illusione del sogno dell’emigrazione nord americana, evaporato all’indomani della grande crisi economica del '29, poteva ravvivare i cuori derelitti. Nessuna presa potevano avere su questa gente le lusinghe strombazzate del regime: la guerra in terra d’Africa…. quando il ponte sul Sauro, il fiume locale, era caduto da quattro anni e nessuno prendeva a cuore il suo ripristino! I paesani dicevano, senza parole, ma con i fatti: fatevela voi signori questa guerra. Tanto comunque andrà per noi non cambierà nulla.
Anche la Grande Guerra, finita da pochi anni, non aveva lasciato sedimento nei contadini: come sempre l’avevano subita, ed avevano fatto presto a dimenticarla. “Era stata una gran disgrazia e si era sopportata come le altre.” Come la siccità, la mancanza di spazi vitali, di strade, di collegamenti. Ieri si moriva sull’Isonzo e sul Piave, oggi in Abissinia per strappare una terra ad altra povera gente!
La Storia degli altri, alla quale i contadini si sono sempre dovuti rassegnare.
Proprio loro, cui era negato persino il termine di “cristiano”, riservato ai soggetti che con maggiore o minore forza erano messi in grado di rivendicare un diritto. Loro erano soltanto “zambri”.
Una sola guerra era in cima ai cuori di tutti: quella dei briganti, finita nel 1865, trasformata già in epica popolare, in mito, che vedeva schierati i contadini, quasi senza eccezioni, tutti dalla parte dei briganti. Zambri come loro, ma che avevano venduto cara la pelle, prima della resa davanti alla preponderante forza dei nemici.
Levi ci ricorda che:“Gli Stati, le Teocrazie, gli Eserciti organizzati sono naturalmente più forti del popolo sparso dei contadini: questi devono perciò rassegnarsi ad essere dominati”
Feroce la pantomima e la visione grottesca degli egoismi di quelli che sembravano vicini al potere. Nel microcosmo di Gagliano si ripete la trasposizione di un’antica lotta di potere tra galantuomini, preti, signori veri o presunti.
E loro, gli altri, gli emarginati, gli autentici servi della gleba, ad osservare queste mosche golose azzuffarsi senza tregua, animati da odi tanto più feroci quanto meno significativi erano i motivi alla base.
Levi si accosta con un rispetto da laico perfetto alle vicende del sacro che ispirano il Paese. Aliano non ha una linea di osservanza cattolica, anzi se ne discosta in maniera palese, osteggiando un prete che ha la sola colpa di essere stato, nel passato, un uomo vicino alle buone letture.
Colpa sufficiente per essere considerato, almeno dalla piccola oligarchia paesana, un soggetto pericoloso per l’ordine interno.
Osserva i riti spontanei della gente, le credenze negli animali a doppio nome, il timore dovuto alle presenze degli spiriti del bene e del male, la apparizione sulfurea del "sanaporcelle". Straordinarie le righe riservate ai monachicchi, folletti che si aggirano dispettosi a complicare le già impervie esistenze dei contadini. Sono gli elfi della tradizione sassone e teutonica, apparizioni maligne che sono simboli delle forze dell’aria, del fuoco della terra e dei fenomeni atmosferici in generale. Tante le leggende legate a queste figure: alcune parlano delle cattiverie che essi compiono nei confronti degli uomini, dei rapimenti di bambini. “Il loro carattere è di giocosa bizzarria e sono quasi inafferrabili. Nascondono una grande sapienza e conoscono tutto quello che è nascosto sottoterra”. Levi non si permette sarcasmi sulle credenze dei locali. Le rispetta, tenta di inquadrarle nel contesto generale di quelle vite angosciate.
Per difenderne la dignità si scontra persino con il suo gruppo di amici, nel corso di un fugace rientro a Torino: “ Tutti mi avevano chiesto notizie del mezzogiorno, a tutti avevo raccontato quello che avevo visto, ..ben pochi mi era parso volessero realmente capire quello che dicevo. Molti erano uomini di vero ingegno che dicevano di aver meditato sul problema meridionale e avevano pronte le loro formule e i loro schemi. Per essi il mondo dei contadini era un mondo chiuso, che neppure si preoccupavano di penetrare..Quindici anni di fascismo avevano fatto dimenticare a tutti il problema meridionale. Alcuni vedevano un mero problema economico…Altri non vi vedevano che una triste eredità storica. Altri ancora pensavano a una vera inferiorità di razza. Solo il nostro medico/pittore/narratore che è stato nel limbo degli “zambri” riesce a prevedere che anche dopo la fine del fascismo “ricreeranno uno Stato altrettanto, e forse più, lontano dalla vita ..perpetreranno e peggioreranno, sotto nuovi nomi e bandiere, l’eterno fascismo italiano.”
Il protagonista di Cristo si è fermato ad Eboli è un uomo colto, impegnato in prima persona nella storia contemporanea, che di colpo viene catapultato in un mondo stregonesco, con marcati caratteri magici e che prende consapevolezza che i suoi schemi di ragionamento non valgono più a Gagliano, sono in gioco altre ragioni, altri contrasti che sono al tempo stesso più articolati e più elementari. E che accetta tutto con una rassegnazione che in lui incomincia a farsi strada: “ Gagliano mi riprese e mi richiuse, come l’acqua verde di un pantano raccoglie la rana.”
L’alto valore di quest’opera come di tutte le creazioni, anche pittoriche, di Levi, si fonda su un duplice rifiuto: respinge ad un tempo l’oggettività di maniera e la pura soggettività. Quell’avventura della sua vita serve a raccontare il mondo ed a calarsi nella realtà che lo circonda. La Storia si confonde nelle storie minute senza soluzione di continuità.

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