mercoledì 4 giugno 2014

vado a cacà, di renza

Crescevo a Napoli verso la fine degli anni '50. Famiglia di origini calabro/argentina - lucana. Il lessico familiare era una arzigogolata composizione di tanti suoni e delle loro distorsioni. I contatti con i compagni di scuola mi parvero da incubo. Loro dialogavano in napoletano stretto, idioma a me sostanzialmente sconosciuto. Ma che mi attirava per le sonorità accattivanti e per le immagini che sembravano saltare fuori dalle parole. 
Poi pensavo che da quel momento in poi quel simpatico frastuono sarebbe stata la colonna sonora delle mie giornate e ad ogni parola nuova o sconosciuta sentivo crescente il senso di inadeguatezza. Che tale rimase fino agli anni del liceo. In quel periodo si stavano per aprire le porte della conoscenza, attraverso un nuovo compagno, diventato presto amico. Dividemmo i tre anni di liceo classico e le fatiche della maturità. Periodo di impegno concreto, con un esame sullo sfondo che era la prima vera prova di una vita trascorsa fino a quel momento senza ostacoli. 
La famiglia del mio amico era da tempo impegnata nella panificazione, attività che a me sembra meravigliosa e piena di spunti magici. Ma la caratteristica più rilevante del gruppo era quella di parlare in napoletano vero. Si, quello con tutti gli spagnolismi e le espressioni idiomatiche di chi viene da lontano nella parlata. Non certo quella specie di esperanto bastardo che sentivo tutti i giorni, mosaico imperfetto ed abborracciato di tanti altri dialetti e del tentativo di italianizzare il vernacolo.
No, loro parlavano con naturalezza in una splendida lingua piena di termini che avevano un senso e creavano suggestioni intense. In quella casa ho sentito per la prima volta definire un uomo basso "nu muzzone 'e sicario"; o la mitica "arrasso sia", formula esoterica per allontanare dai presenti un male appena evocato; imparai la misteriosa "uosemo", che sta per fiuto; mi addentrai tra le impervie direzioni di "alliffato",  per persona lisciata e pulita o di "strafalario", il perditempo inutile che sosta all'angolo del portone o del bar. Ebbi altre rivelazioni, come "scurriato", che è la frusta, l"abbusco" che è la mancia a chi svolge piccoli servizi, scoprii che cosa volesse dire "ammarrare", cioè chiudere, serrare e l'importanza, specie nei giorni di festa, delle "sciosciole", la frutta secca delle grandi occasioni.
Quei maestri così gradevoli non ci sono più. Forse meglio per loro che si sono risparmiati quella pessima lingua che oggi circola in città, senza origini e senza personalità. Se ci fossero ancora potrei farmi rivelare che cosa voglia dire l'espressione del titolo: vado a cacà di renza. La prima parte è chiarissima e dimostra l'impellenza di un bisogno fisologico. Ma perché di "renza", cioè di lato? Me la sono spiegata in tanti modi, del tipo mi nascondo,  cerco di non farmi scorgere. Ma resta un mistero e chissà che non sia meglio così.

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