martedì 1 maggio 2012

Se il lavoro potesse parlare

Oggi è un giorno speciale, in questo Paese speciale. 1° maggio, già festa del lavoro, forse sarà ricordato come giorno della vera memoria. Perché quell'altra "giornata della memoria", tragica e feroce, viene troppo spesso messa in discussione da revisionismi da un lato ed interpretazione di comodo dall'altra. 
Nel dopoguerra, questa povera terra rimasta senza niente per aver creduto alle chiacchiere di un seduttore da operetta, si era rimboccata davvero le maniche. Ripartendo per la sola strada che porti da qualche parte se le risorse sono poche e i bisogni tanti. 
Una carta costituzionale scritta non dai soliti tessitori occulti che "riformano" solo la superficie dei problemi, lasciando intatta l'essenza. Era un vero patto sociale riscritto a più voci, leccandosi le troppe ferite di una guerra assurda e prendendo in esame  il tessuto sociale che aveva bisogno di garanzie democratiche e certezze nel solo punto di partenza di qualsiasi collettività: l'attività lavorativa. Che diventò operosità, grazie ai meccanismi virtuosi che quell'atmosfera di cooperazione assicurava. E portò a successi, anche se pagati a prezzo caro dai lavoratori, in termini di miglioramento di qualità della vita.
Non parlo del tanto sbandierato "boom", bensì di cose minime, quali l'acqua corrente e i servizi in ogni casa, la carne sulle tavole, la certezza che alla fine di un mese lavorativo qualcuno avrebbe pagato la mercede, l'assistenza sanitaria per gli occupati e le famiglie.
Piccoli miracoli rispetto ai tempi precedenti dove si mangiava solo se il padrone era soddisfatto e graziosamente ti lasciava gli avanzi o gli abiti smessi.
Si affermavano concetti come dignità proletaria, coscienza delle classi medie, una visione nuova della società e dei rapporti tra le categorie.
Come tutte le cose che nascono dalla necessità, questa fase aveva una scadenza. E bastò il passaggio al momento successivo dell'imborghesimento generalizzato per creare o meglio per rivelare le crepe sempre più profonde di questo sistema risorto dalle ceneri della guerra.
Gli stessi protagonisti di quell'epoca eroica pensarono soltanto a se stessi, con una miopia stolida e ridicola che metteva al sicuro un paio di generazioni, dimenticando che  dopo di loro c'erano i propri figli o nipoti che non avrebbero trovato più niente, nemmeno quell'orgoglio e quei riferimenti ideali che erano serviti da sostegno nei momenti di difficoltà.
Dopo i tanti saccheggi politici, compresi quelli in corso in questo preciso istante, di quella solidarietà non resta più quasi niente. Nuovi concetti si sono sostituiti: mercato, unione tra stati, profitto e profilo individuale, riflusso nel privato.
Il dieci per cento della popolazione è ufficialmente senza lavoro, il trenta per cento dei giovani. Tantissimi fanno lavori che non tengono alcun conto di studi e formazione scolastica. Tutti sono ricattabili dal capo o dal padroncino di turno. Con tanti saluti a ciò che resta del sindacato e della sua capacità di interpretare i bisogni dei lavoratori.
Ma come in ogni disastro ci sarà una via d'uscita. Ci deve essere per forza, perché c'è il rischio di tanta confusione e tanta degradazione umana. Basta guardarsi intorno e prendere atto che i mendicanti, di ogni genere colore e sesso, si sono centuplicati intorno a noi.  Da quelli che smerciano cose minime come fazzoletti di carta, accendini, spugnette per il bagno, calzini, fino a quelli che stendono mano o cappello. Ma questo sistema regge finché tengono le attuali  flebili certezze, quali stipendi, pensioni o  ciò che resta della pessima assistenza sanitaria pubblica. Il passaggio ulteriore potrebbe essere la guerriglia sociale.
E quindi: oggi 1° maggio una laica preghiera a chi oggi si occupa del governo: pensate con serietà e non con le chiacchiere ad avviare una ripresa. Che parta da un punto qualsiasi, ma che restituisca qualche speranza a chi oggi non sa trovare altra strada che la disperazione.