martedì 27 gennaio 2009


Gentile Architetto Pagliara,
La ringrazio di aver ritenuto opportuno rispondermi di persona.
La mia veemenza ed indignazione derivano dal mio status di cittadino bellese, costretto ogni mattina a confrontarsi visivamente con i due edifici di cui Lei ha la paternità. Questa reiterata visione crea in me ogni volta un cortocircuito emotivo che mette in moto la rabbia e la conseguente frustrazione di veder buttati via soldi che altrimenti spesi, avrebbero permesso la conclusione, oltre dei lavori al castello, anche dell'intero antico borgo. E' vero, è da poco che vivo a Bella, ma sono cinque anni che la frequento per motivi di lavoro, e comunque la amo, pur nella sua insignificanza, originaria o provocata, al punto da aver deciso di venirci a vivere e risiedere.
I fatti che lei così puntigliosamente ricorda mi sono stati raccontati in modo assai diverso. Cominciamo dalla scuola. Il sito fu scelto, rispetto ad uno più idoneo, che sarebbe dovuto ubicarsi o nella piana sottostante, dove c’era la possibilità di creare un campus scolastico a linee orizzontali, o nella parte nuova del paese, dove c’è l’attuale municipio, con la pretestuosa motivazione di rivitalizzare il centro storico, affetto, come tutti i centri storici da desertificazione progressiva. La vera motivazione, Lei lo sa, e che era molto più interessante scegliere il luogo che poi si è scelto, anche per i costi in più di detta operazione, e il conseguente movimento di denaro che si sarebbe creato intorno alle problematiche che si sarebbero dovute affrontare. Si è dovuto rinforzare ad esempio tutto il terrapieno che regge la chiesa madre, con una palificazione il cui costo di materiali e posa in opera costò, mi dicono, a suo tempo la non piccola cifra di tre miliardi. Il quartiere che fu raso al suolo per fare posto alla scuola era fatiscente ma non un cumulo di macerie come Lei dice (ho visto tutta la documentazione fotografica dell’epoca). Tant’è che esiste un Suo progetto, più pregevole di quello messo in opera, in cui la scuola si insinua, a mo’ di villaggio, parcellizzata in vari edifici di piccola scala, inseriti e quasi mimetizzati tra le case vecchie della costa verso il cimitero. Se Lei aveva in un primo momento progettato questo inserimento “soft”, era perché le preesistenze abitative c’erano, anche se erano di poco valore. Comunque avete scelto di abbattere completamente e di costruire quello che oggi si vede. Mi dice che i materiali d’uso sono stati cambiati in corso d’opera per questioni economiche. E questo mi conceda è un errore di pianificazione economica che un Maestro non dovrebbe permettersi. A casa mia si costruisce un edificio con la cautela “del buon padre di famiglia”, commisurato a quelli che sono i finanziamenti (e questo vale anche per il castello di cui parliamo dopo), non seguendo la logica del “cominciamo, spendiamo e spandiamo, poi qualche santo ci aiuterà”. Perché poi altrimenti ci si ritrova a dover finire l’edificio con materiali di minor pregio, che non reggono all’usura del tempo, per cui, è di questi giorni, da quella prolusione di terrazzamenti inutilizzati da Lei concepita, filtra l’acqua nelle aule e i ragazzi sono costretti a stare in classe col cappotto e con i secchi.
Lei con orgoglio rivendica il “capolavoro di inserimento”che sarebbe la scuola, e sentirglielo affermare mi fa ribollire il sangue. “Inserirsi” significa rispettare il contesto, adeguarsi, mimetizzarsi.
Pensiamo all’aula magna dell’ università di Urbino del compianto Giancarlo De Carlo e a come si mimetizza nel tessuto urbanistico della città, e questo senza rinunciare ad alcuna arditezza formale o strutturale. Qui invece ci troviamo davanti ad “un capolavoro di inserimento” che ha tolto tutto il contesto (come se un oculista per curare un occhio togliesse tutto il bulbo dall’orbita) per costruire un edificio in scala “gigante” (vedi il megaportico che ingloba la biblioteca al piano stradale, che ci accoglie arrivando a Bella lungo la provinciale, vero e doloroso biglietto da visita del paese), per un terzo inutilizzato (tutte le aule costruite contro la collina totalmente prive di luce) con le “torri monofunzionali” (vuole forse dire che ogni funzione si espleta in un diverso edificio? Ovverosia che i bambini, mangiano a pianterreno, fanno i loro bisogni al quinto, studiano non si sa dove e giocano, da nessuna parte? Cioè stanno, come stanno, perennemente in ascensore o per le scale?) Le “torri monofunzionali” mi ricordano tanto le siringhe monouso, altrimenti dette “usa e getta”, ma quello che va bene per le siringhe non va altrettanto bene per una scuola. La scuola non può essere gettata.
Passiamo al castello. Anche questo famoso cumulo di macerie, non mi risulta che fosse tale (documentazione fotografica e testimonianze orali) L’edificio come sa era stato riadattato a scuola, e tutti i cinquantenni di oggi hanno studiato negli ambienti del castello. Il terremoto ha inferto i suoi danni ma non tali da giustificare interventi come i suoi. Qui mi deve chiarire la contraddizione tra quello che sostiene nella Sua risposta, in calce alla mia lettera, e questa Sua lettera privata. La pietra di Trani con i festoni e le ghirlande, le modanature e profilature a dischi a rilievo, il rosso pompeiano, le tensostrutture giganti in ferro, le coperture in plexiglas, il “palchetto del duce” sempre in ferro che incombe sull’ingresso, la luce ultravioletta che si accende automaticamente di notte (mi hanno favoleggiato anche di cellule a raggi infrarossi che Lei avrebbe voluto inserire), fanno parte de “lo stile del restauro, fortemente connotato - il Suo - e che gli permette di essere indicato da molti architetti della regione (e fuori) come un… “modello d’intervento” oppure “l’hanno ultimato altri con allestimenti così bizzarri”? Chi sono questi architetti che lo additano come un modello d’intervento? Quelli che hanno fatto di Potenza la città che è, o gli americani che hanno restaurato, come sappiamo, lo Stoa di Attalo ad Atene o il palazzo reale a Cnosso?
Altra contraddizione: ieri diceva che “il rosso è il colore dei casoni settecenteschi della Campania”; oggi dice che “recuperati pochi soldi il rosso potrà essere riportato al ‘ruggine pompeiano’ che avevo previsto”. E’ Pompei, sono i casoni campani settecenteschi, qual è la sua fonte filologica e storica d’ispirazione? E che “ci azzecca” tutto ciò? Siamo in Campania nel primo secolo dopo Cristo, siamo in pianura campana nel ‘700? No! Siamo in Lucania, l’edificio è un Castello, sia pur minore, in cima al cocuzzolo, è un edificio che risale al XI secolo. Quindi queste scelte, lungi dal derivare “da una lettura scientifica del monumento” sono scelte arbitrarie, d’autore, e qui entro nel terreno del gusto e del giudizio, sono cascami postmoderni maldigeriti, citazionisti, portoghesiani che con il nostro castello non hanno alcun rapporto e ragion d’essere.
Oltretutto i materiali usati al castello, come il già citato bianco di Trani (non proprio dietro l’angolo…), le megastrutture in ferro (o acciaio) in facciata, le tensostrutture come sopra, le coperture in plexiglas, sono tutti assai costosi e, come nel caso della scuola, hanno fatto lievitare i costi e provocato l’interruzione dei lavori.
Per cui oggi noi bellesi ci ritroviamo davanti tutti i giorni questo monumento all’inconcludenza, alla megalomania fallimentare di un Maestro, con le sue occhiaie vuote nere senza infissi, con in più il paradosso che si illumina ogni notte come se fosse animato da chissà quale “notte castellana”.
Maestro, quello che le imputo è che in tutto questo Lei non ha assolto quello che dovrebbe essere sempre il compito di un artista e di un intellettuale, oltreché di un docente universitario: quello di indirizzare culturalmente la committenza e la comunità, che non è altrettanto attrezzata culturalmente, alle scelte migliori, seguendo principi etici, ripeto ETICI. Ponendosi e rispondendo alle domande: di che cosa ha bisogno questo paese? Quanti soldi ci sono? Cosa possiamo fare con questi soldi? Qual è la soluzione migliore per garantire i risultati? Allora sì che gli abitanti di questo paese le avrebbero tributato affetto a profusione, regalato non uno ma una muta di cani come Argo.
Un’ultima cosa. Capisco che si è informato su di me, visto che sa che “vivo in uno di questi obbrobri” Non poteva anche informarsi su chi sono e cosa faccio (non è difficile: basta digitare il mio nome e cognome in Google o andare in Mymovies)? Avrebbe evitato così di trovare la “mia storia giunta sin qui immacolata e senza prendere rischi”
Di rischi ne ho corsi, caro Maestro, e continuo a correrne, e cerco sempre di mettere nelle cose che faccio, la mia faccia, la mia firma, di assumermi la responsabilità, di agire secondo etica, di ammettere i miei errori, e di non scaricare sugli altri il peso e le conseguenze di tali errori.
La saluto cordialmente

Fulvio Wetzl


Bella 26 gennaio 2009

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